I due belligeranti non mollano di un centimetro. I toni sono minacciosi, da parte di Washington si parla di "pazienza strategica finita": l'azione militare resta tra le prime opzioni statunitensi, qualora dovesse fallire ogni approccio diplomatico nei confronti del regime di Pyongyang. Quest'ultimo risponde a tono ed utilizza addirittura due parole, cadute in disuso nella Storia recente, che fanno tanta paura solo a pronunciarle: "guerra nucleare". I timori di Pechino sono in vertiginosa crescita. La Cina non vuole un'escalation militare al proprio confine e mira ad una soluzione diplomatica per risolvere l'attuale crisi coreana.

Il governo cinese, ormai da anni, non ha più interesse nel fare la guerra all'Occidente con cui ha avviato solide partnership commerciali. Finora, però, tutti i tentativi diplomatici del leader cinese Xi Jinping sono caduti nel vuoto, il regime norcoreano ignora dall'inizio del mese di aprile le richieste d'incontro degli ambasciatori di Pechino.

La Cina nel XXI secolo, la perfetta sintesi tra comunismo e capitalismo

Esiste un trattato militare tra la Cina e la Corea del Nord. Venne stipulato nel 1961 da Mao Tse-tung e Kim Il-sung e si rinnova in automatico ogni 20 anni. Prevede, in sintesi, l'impegno di ciascun governo ad intervenire a supporto dell'altro, qualora sia vittima di un'aggressione non provocata.

In base a questo accordo, se la Corea del Nord dovesse subire un attacco statunitense senza aver fatto la prima mossa, Pechino dovrebbe intervenire militarmente a difesa dell'alleato. Sarebbe stato scontato oltre quarant'anni fa, quando Mao era ancora in vita. In realtà la Cina ha iniziato ad aprirsi all'Occidente pochi anni dopo la morte dello storico leader.

Con Deng Xiaoping alla guida del Paese (1978-1989) nacque il "socialismo con caratteristiche cinesi" che si discostava nettamente dalla tradizionale ideologica marxista (tra le riforme ci furono tanto l'apertura del mercato ad investimenti esteri quanto il riconoscimento della proprietà privata, ndr). Negli ultimi trent'anni, Pechino è riuscita a consolidare una perfetta sintesi tra comunismo e capitalismo, grazie alla quale è diventata la seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti d'America.

Il Partito Comunista Cinese ha compreso la necessità dell'evoluzione politica onde evitare il disfacimento, come accaduto all'URSS

Pechino e Pyongyang sempre più distanti

In quest'ottima, i rapporti con la Corea del Nord si sono progressivamente deteriorati raggiungendo i minimi storici a partire dal 2011, quando Kim Jong-un ha preso il posto del padre, Kim Jong-Il, alla guida del governo di Pyongyang. L'attuale leader cinese, Xi Jinping, ha criticato in maniera aperta le ambizioni nucleari nordcoreane e, teoricamente, avrebbe il potere di esercitare una pressione devastante sull'insolente vicino. Non è un segreto che l'economia nordcoreana poggia quasi interamente sulla Cina che costituisce la quasi totalità del commercio estero di Pyongyang e che, inoltre, ha supportato finanziariamente il vecchio alleato militare nei momenti più difficili.

A confermare una vecchia intesa ormai agli sgoccioli, c'è un aspetto emblematico: Xi Jinping e Kim Jong-un non si sono mai incontrati personalmente da quando, nel 2012, il primo è diventato leader della Repubblica Popolare Cinese. Nel 2013, inoltre, le relazioni tra i due Paesi hanno subito un durissimo colpo, quando il dittatore nordcoreano ha fatto arrestare e giustiziare lo zio, Chang Sung-taek. Cognato dell'ex leader Kim Jong-Il, era il fautore di una politica di apertura del regime sul modello cinese.

Perché la Cina non 'scarica' la Corea del Nord

Nonostante tutto, la Cina non ha mai 'scaricato' del tutto la Corea del Nord. Ne avrebbe avuto sacrosante motivazioni, a partire dagli ultimi test nucleari decisi da Kim Jong-un ed effettuati, contrariamente a quanto avveniva in passato, senza avvisare Pechino.

Il regime, però, costitituisce ancora oggi un fondamentale 'cuscinetto' in un'area dove sono presenti Corea del Sud e Giappone, partner militari ed economici degli Stati Uniti. L'ultima cosa che Pechino desidera è una guerra tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti, in primo luogo per i risvolti imprevedibili ed inquietanti del possibile conflitto: l'escalation nucleare costituirebbe un autentico disastro, se consideriamo la vicinanza tra i due Stati. Senza contare il prevedibile arrivo di profughi di guerra dalla penisola coreana. Nello stesso tempo, l'eventuale disfatta di Pyongyang e la caduta del regime, porterebbe inevitabilmente alla riunificazione della penisola in un'unica nazione sotto l'influenza di Washington, soluzione sgradita alla Cina e, in seconda battuta, anche alla Russia i cui rapporti con gli Stati Uniti sono decisamente peggiorati.

I tentativi di mediazione

Il ruolo di Pechino in questa crisi, pertanto, è decisivo: soltanto Xi Jinping potrebbe essere in grado di far tornare la Corea del Nord su posizioni ragionevoli, promettendo nuovi e corposi aiuti economici e, nel contempo, minacciando di interrompere qualunque tipo di supporto in caso di rigetto. Ragion per cui, anche alla luce del recente summit in Florida con il leader cinese, Donald Trump potrebbe saggiamente decidere di attendere l'esito della mediazione. Il problema è la muraglia che Kim Jong-un sembra aver eretto nei confronti della Cina: la scorsa settimana il rappresentante di Pechino per gli affari della penisola coreana, Wu Dawei, ha incontrato a Seoul i rappresentanti di governo della Corea del Sud per discutere della crisi in atto. Il diplomatico aveva anche programmato la visita a Pyongyang, ma dalla capitale nordcoreana non è giunta alcuna risposta. Un copione che va in scena puntualmente da qualche settimana.