Incredibile come riesca ancora oggi a far parlare di sé. Sono trascorsi più di 24 anni dal suo arresto, oggi Totò Riina è un uomo anziano la cui salute è estremamente precaria. Ma proprio la sua attuale condizione, potrebbe portare ad una sentenza clamorosa. La Cassazione ha infatti sottolineato che "ad ogni detenuto va assicurato il diritto di morire con dignità". Nel caso del boss di Corleone, va comunque posto in primo piano il suo "spessore criminale". Tutti elementi che saranno esaminati dal Tribunale di sorveglianza di Bologna che dovrà decidere sulla richiesta di differimento della pena, già presentata in passato dagli avvocati di Riina e sempre respinta.

Se fosse accolta, il capo dei capi potrebbe essere detenuto ai domiciliari.

Le condizioni di salute

Totò Riina compirà 87 anni il prossimo novembre. Dal 2014 si trova detenuto nel carcere di Parma, ma le sue condizioni di salute sono ormai peggiorate da diversi anni. Già nel 2003 aveva subito un intervento chirurgico per problemi cardiaci, nel periodo in cui era rinchiuso nella struttura penitenziaria di Ascoli Piceno. Allo stato attuale, le sue condizioni neurologiche sono irrimediabilmente compromesse, soffre inoltre di una neoplasia renale che gli impedisce di stare seduto e lo pone ulteriormente a rischio di eventi cardiovascolari fatali. Il nodo da sciogliere è legato essenzialmente al suo stato: un uomo nelle sue condizioni, pur essendo stato per anni il capo indiscusso di Cosa Nostra, può ancora essere definito pericoloso?

In tal senso, la Direzione Nazionale Antimafia non ha dubbi: Riina è ancora il capo dei capi e per la mafia è ben più di un 'monumento' rinchiuso nella cella di un carcere.

Per i boss è ancora un punto di riferimento

Diversi mesi fa, i carabinieri del Ros intercettarono due esponenti di una cosca palermitana. "Se non muoiono, luce non ne vede nessuno", è il sunto del dialogo.

Il riferimento era a Toto Riina e Bernardo Provenzano, quest'ultimo è effettivamente morto a luglio dello scorso anno. I magistrati della DNA hanno dato un preciso significato a queste parole che riconoscevano 'grande importanza' ai due boss, nonostante fossero trascorsi diversi anni dal loro arresto. Ma, contemporaneamente, li trasformavano in simboli ingombranti: secondo questa tesi, infatti, la definitiva riorganizzazione della Cupola non è stata portata ancora a compimento, proprio perché il capo dei capi è ancora in vita.

L'ultima proroga del 41 bis nei confronti di Riina, firmata dal ministro guardasigilli Andrea Orlando nel 2015, scadrà il prossimo mese di novembre e non è da escludere che venga prorogata. Due anni fa, il prolugamento del regime di carcere duro fu dettato prioprio dal parere della DNA, secondo cui Riina è ancora al vertice di Cosa Nostra.

Le minacce al giudice Di Matteo

Totò Riina è vecchio, segnato dal tempo e dai tanti problemi di salute, ben diverso da quello che apparve in manette davanti alle telecamre di tutto il mondo nel gennaio del 1993. Ma i lunghi anni di carcere non l'hanno certamente cambiato: l'ultima intercettazione che lo riguarda direttamente risale a soli tre anni fa, quando nel 2014 rilasciava 'condanne a morte' contro i suoi nemici, esattamente allo stesso modo in cui aveva fatto per tanti anni durante la sua latitanza.

"Questo Di Matteo non se ne va - disse al suo compagno dell'ora d'aria - e quindi organizziamo questa cosa, un'esecuzione come quando c'erano i militari a Palermo". Il riferimento era al giudice Antonino Di Matteo che aveva retto l'accusa in numerosi procedimenti a suo carico. Lo stesso anziano boss, in una delle intercettazioni di quei giorni, si autodefniva "spietato, perché nato dalle leggi della natura". Sono parole che, oltre a far salire il livello di allarme e moltiplicare le scorte a protezione del magistrato minacciato, confermano che il pensiero di un vecchio 'padrino' che da anni è praticamente tumulato in strutture carcerarie, è lo stesso che portò alle stragi di mafia degli anni '80 e '90.

Democrazia e giustizia

Dinanzi ad un parere importante come quello della Cassazione, dunque dei giudici che conferiscono legittimità a qualunque sentenza, il primo dovere di un cronista dovrebbe essere quello di non prendere una posizione. Ma in casi come questo non possiamo esimerci dal farlo: lo dobbiamo a Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Mauro Rostagno, Pippo Fava, Peppino Impastato, Beppe Alfano ed a tanti altri, tutti cronisti uccisi perché avevano cercato semplicemente di raccontare la verità sulla mafia. Pertanto, se morire dignitosamente è un diritto indiscutibile per ogni detenuto in uno Stato democratico, è altrettanto doveroso dare il giusto peso al concetto di giustizia, lo stesso che fa da asse portante ad una vera democrazia.

Pensiamo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed a tanti altri servitori dello Stato ai quali Riina non ha concesso il diritto di una morte dignitosa. Pensiamo a Giuseppe Di Matteo, non aveva nemmeno 15 anni quando è stato ucciso dai fedelissimi del capo dei capi (Riina all'epoca era già stato arrestato, ndr). Il suo corpo non è mai stato ritrovato perché disciolto in una vasca di acido nitrico, la sua unica colpa fu quella di essere il figlio di un collaboratore di giustizia. Basterebbe questo a far decadere ogni presunto diritto. Non si tratta di vendetta, è solo giustizia: la stessa che ha condannato Totò Riina a svariati ergastoli e che non lo lascerà comunque morire senza cure, se e quando le sue condizioni di salute si aggraveranno.

Oltre questo, uno Stato democratico non può e non deve essere disposto a fare ulteriori concessioni, nel rispetto di magistrati e forze di polizia, i suoi diretti rappresentanti che hanno perso la vita nel tentativo di assicurare alla giustizia uno dei criminali più spietati della Storia d'Italia.