È morto a 87 anni dopo cinque giorni di coma, nel reparto detenuti dell’Ospedale di Parma, il boss Totò Riina, capo di Cosa nostra. Le sue condizioni già critiche, a seguito di due interventi chirurgici, e la disposizione del coma farmacologico avevano da qualche giorno lasciato immaginare l’epilogo della sua vita. Proprio in ragione delle sue condizioni di salute era stato chiesto più volte negli ultimi anni un differimento della pena e detenzione domiciliare, istanze sempre negate, fino a ieri, quando in vista delle complicazioni del suo quadro clinico è stato accordato un ultimo incontro coi suoi familiari, concesso dal ministro della Giustizia Orlando.
Il boss sembra non aver mai avuto nessun pentimento riguardo al suo operato nelle cerchie della mafia, sentimento evidenziato anche dalle dichiarazioni fatte in carcere, in cui affermava con fierezza di essere ancora lui il capo, di non pentirsi delle stragi fatte, continuando a minacciare da dietro le sbarre l’operato dei magistrati. Famigerata resta l’espressione “gli ho fatto fare la fine del tonno” usata dal boss in riferimento alla morte di Borsellino.
La vita a Corleone
Il boss soprannominato anche U curtu, con riferimento alla sua statura e La Bestia, per via della spietata ferocia mostrata durante la sua militanza nella Mafia, è nato a Corleone in una famiglia di contadini. All’età di 13 anni perde il padre e un fratello durante un’esplosione avvenuta mentre il genitore cercava di estrarre la polvere da sparo da una bomba americana inesplosa ritrovata nelle campagne corleonesi.
Da questo momento diviene lui il capo famiglia e questo funerale è ricordato come l’unico avvenimento in cui si sia visto piangere il famigerato boss. Le campagne di Corleone sono anche il teatro che vede nascere la conoscenza di Riina e Bernardo Provenzano, considerato il suo erede come capo di cosa nostra a partire dal 1995, fino al suo arresto avvenuto nel 2006.
Arrestato il 15 gennaio 1993 dopo una latitanza di 24 anni, Riina scontava in carcere una pena a 26 ergastoli per decine di omicidi e stragi, tra le quali la strage di Capaci, scontando la detenzione in regime di 41-bis, previsto per chi si macchia di reati di mafia. Finalizzato a impedire il passaggio di ordini e altre comunicazioni criminali tra carcere e boss, nel regime del carcere duro i criminali sono osservati 24 ore al giorno e sottoposti a particolari misure restrittive che riguardano tutti gli aspetti della loro detenzione, dall’ora d’aria ai limitatissimi colloqui con familiari e avvocati.