Avrebbero meritato entrambi una copertina sul Time. Peccato non esistano foto che ritraggono insieme Donald Trump e Kim Jong-un, ma del resto il presidente degli Stati Uniti ed il leader della Corea del Nord non si sono mai incontrati. Il miliardario entrato alla Casa Bianca ha conquistato il titolo di 'personaggio dell'anno' sul noto settimanale statunitense nel 2016; Kim ha 'rischiato' di esserlo quest'anno, ma gli sono state preferite le 'Silence Breakers', le donne che hanno rotto il silenzio denunciando le molestie sessuali subite in diversi ambiti.

Poco male, perché se consideriamo la politica internazionale, il giovane dittatore ha monopolizzato l'interesse della stampa, sia quella ‘regolare’ che quella catastrofista ai confini delle 'fake news'. In realtà il mondo non è vicino alla Terza Guerra Mondiale, ma fa comunque effetto che un Paese caduto nell'oblio dei media occidentali da molti anni, tale è la Corea del Nord definita non a caso uno 'Stato eremita', sia riuscita a tenere testa alla più grande potenza militare del mondo. Ovviamente non in una guerra vera, ma in un confronto virtuale fatto di minacce reciproche, insulti, dimostrazioni di forza. In fin dei conti ci sono dei tratti comuni tra i due leader, protagonisti di questo estenuante braccio di ferro.

Trump e Kim, una vita alla Dorian Gray

'Nel bene o nel male, purché se ne parli' è un motto letterario piuttosto celebre, coniato da Oscar Wilde nel suo tenebroso 'Ritratto di Dorian Gray". Il grande scrittore e poeta irlandese sarebbe stato felice di vederlo realizzato in due leader politici, ad oltre un secolo di distanza da uno dei suoi capolavori.

Donald Trump e Kim Jong-un sono due personaggi di cui si parla tanto e, onestamente, le cose che si dicono sul loro conto sono raramente positive. C'è innanzitutto una differenza sostanziale, perché Trump è il leader dei ‘forti, ma buoni’ (la visione più o meno comune che ha l’occidente degli USA) e dunque ogni sua grossolana gaffe viene attribuita ad una sorta di inesperienza o, più precisamente, inadeguatezza politica.

Kim è invece il 'cattivo doc', il Saddam o Bin Laden della circostanza, l'uomo che minaccia il mondo con le testate nucleari. In realtà entrambi tirano acqua ai rispettivi mulini. Ma cosa hanno davvero in comune, oltre la capacità di far discutere la gente ed un discutibile taglio di capelli? Entrambi hanno la stoffa del monarca assoluto, anche se la monarchia di Trump è solo apparente: negli Stati Uniti non è mai stato e non sarà mai un unico uomo a detenere il potere ed il presidente è solo l'espressione delle gerarchie militari e delle lobbies che governano il Paese sin dai tempi di George Washington. Kim Jong-un è stato invece educato per essere leader politico di un Paese dove vige una dittatura comunista unica nel suo genere.

Innanzitutto perché è ereditaria, caso unico nella Storia, proprio come una vera monarchia ed è in realtà un comunismo stranamente classista. Il 'Songbun', comunismo con caratteristiche nordcoreane, divide la popolazione attraverso le 'caste di cittadini meritevoli', in base all'estrazione sociale, economica e politica degli antenati di ciascuno. Inutile dire che questi meriti sono a totale discrezione del regime.

Il poco rispetto della comunità internazionale

Ma c'è una cosa che più di ogni altra unisce i due belligeranti virtuali ed è la presunzione di essere al di sopra di tutti, in special modo della comunità internazionale. Le sanzioni decise dalle Nazioni Unite nei confronti della Corea del Nord hanno ormai raggiunto l'inverosimile, ma nonostante le difficoltà economiche di un Paese che sarebbe già sprofondato da anni nella catastrofe senza il supporto cinese, Kim Jong-un tira dritto per la sua strada e la sua continua sfida nei confronti di Washington scandita da missili sempre più all'avanguardia che ormai da oltre un anno sfrecciano periodicamente sopra il Mare del Giappone, trova milioni di sostenitori a Pyongyang e dintorni.

Lui è l'eroe di un popolo sempre più in difficoltà che però tiene duro, perché 'dallo sviluppo delle armi atomiche dipende la sopravvivenza stessa del Paese'. Questo il suo leitmotiv, questo è ciò in cui crede la stragrande maggioranza dei nordcoreani. Quanto a Donald Trump, la sua incredibile mancanza di acume verso annose questioni internazionali come quelle di Iran e Palestina è assolutamente inaccettabile. Al di là di un’evidente poco adeguatezza al ruolo che gli elettori gli hanno consegnato, ciò che colpisce è l'incredibile 'disprezzo' per ciò che viene sancito e certificato dalla comunità internazionale. Prima la scelta di uscire dagli accordi sul clima di Parigi, poi quella ugualmente unilaterale di non riconoscere più il trattato sul nucleare con l'Iran.

L'ultima, clamorosa decisione è stata bocciata largamente dalle Nazioni Unite, quella di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele.

Una violazione a supporto di un’altra violazione

Storicamente gli Stati Uniti d'America hanno sempre supportato lo Stato d'Israele. Uno dei pochi momenti di attrito si è verificato lo scorso anno, quando l'ONU ha posto il veto sulla costruzione di nuove colonie ebraiche nei cosiddetti territori occupati e gli Stati Uniti, per la prima volta, si sono astenuti e non hanno preso una posizione a favore dell'alleato. La mossa di Trump, così sfacciatamente filo-israeliana, ha ricucito definitivamente lo strappo di Obama, ma di fatto si pone a priori in violazione di una vecchia risoluzione ONU, la celebre 242 del 1967.

Votata a maggioranza dal Palazzo di Vetro, sancì l'esistenza di due stati nella regione, uno israeliano e l'altro arabo, con tutti i territori occupati da Israele durante la 'guerra dei sei giorni' che sarebbero stati inclusi nello Stato di Palestina all'atto della sua creazione. Tra questi anche Gerusalemme Est, scelta dall'Autorità Palestinese come capitale di un Paese che ancora non esiste. Coerente con quanto deciso mezzo secolo fa, l'Assemblea generale dell'ONU ha bocciato la decisione drastica di Trump con numeri assolutamente inequivocabili: 128 sono stati i voti a favore della risoluzione anti-USA presentata da Turchia e Yemen che godeva del sostegno incondizionato di tutto il mondo islamico, 35 gli astenuti e soltanto in 9 si sono schierati dalla parte di Washington e Tel Aviv, anzi in 7 se togliamo i diretti interessati Stati Uniti ed Israele: Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau e Togo.

La mancanza di rispetto per il ruolo delle Nazioni Unite era stata già espressa prima del voto, quando l’ambasciatrice statunitense Nikki Haley aveva lanciato un monito all’assemblea sottolineando che si sarebbe segnata i nomi dei Paesi che avrebbero bocciato la decisione di Trump. Alla stretta realtà dei fatti, quando era evidente che la 'black list' sarebbe stata troppo lunga, la reazione americana è stata quella di minacciare il ‘taglio’ dei propri fondi verso le Nazioni Unite, oltre a rimarcare che l’ambasciata a stelle e strisce sarà comunque trasferita a Gerusalemme.

Cosa aspettarsi dal nuovo anno

Non ci sembra una reazione diversa rispetto alle prese di posizione nordcoreane, senza però tralasciare che gli Stati Uniti costituiscono ancora oggi la spina dorsale della comunità internazionale.

I dodici mesi del 2017 però ci consegnano un’America molto più isolata rispetto a quella di Barack Obama che negli ultimi anni del suo secondo mandato si era prodigato per chiudere alcuni eterni conflitti, la visita a Cuba e l’accordo sul nucleare con l’Iran sono esempio palese di questa strategia. Con il suo confuso ‘America First’, Trump non solo ha riaperto le vecchie ferite che erano sul punto di chiudersi, ma ha inoltre creato attrito con gli storici partner europei. Quanto alla Corea del Nord, Obama l’aveva volontariamente ignorata senza dar luogo ad un muro contro muro che avrebbe rafforzato in qualche modo il prestigio di Kim Jong-un che nel giro di soli dodici mesi, invece, è passato dallo status di 'pittoresco personaggio' a quello di pericolo mondiale.

Trump ha scelto un’apparente linea dura, consapevole però delle difficoltà di un’azione militare che gli Stati Uniti avrebbero ben volentieri messo in atto da anni, ma che è sempre stata resa impossibile dalla presenza della Cina. Pechino è tutt’oggi un potente alleato di Pyongyang, sebbene le relazioni diplomatiche tra i due Paesi siano ai minimi storici. Ci attende pertanto un 2018 piuttosto incerto, certe annose controversie internazionali sono ben lontane dall’essere risolte e ci auguriamo che continui la fase di stallo nella penisola coreana e che i due ‘galli’ proseguano ad azzuffarsi in un pollaio virtuale. La soluzione diplomatica è piuttosto difficile allo stato attuale, perché nessuno dei due 'monarchi' è disposto a fare concessioni alla controparte.

Alla fine Donald Trump e Kim Jong-un sono due facce della stessa medaglia, ma non bisogna dimenticare che il primo è alla guida della maggiore potenza militare del pianeta. Troviamo più inquietante un imprevedibile presidente americano, piuttosto che il giovane ed insolente dittatore di un piccolo Stato comunista che ha fermato il tempo all’epoca della guerra fredda.