E' successo. Sono tutte lecite le domande che via via vengono poste dai tanti appassionati e non dello sfavillante mondo della boxe professionistica negli ultimi giorni. "Era necessario?", "E' giusto?", "Perché dopo tutto questo tempo?". Partiamo con ordine, con quella che per molti, probabilmente, è la domanda principale: "che cosa è successo?".
E' il 1912. John Arthur Johnson, detto Jack, è campione mondiale dei pesi massimi. Ma non è, come si direbbe oggi, un campione qualsiasi: nato da genitori che avevano impresso a fuoco sulla loro pelle il marchio dello schiavismo, lui è il primo campione nero della storia, il primo eroe a sfidare le abominevoli regole morali di uno Stato, quello statunitense, che in quegli anni ancora storceva il naso all'idea di quelli che oggi in tutto il mondo sono conosciuti come valori universali.
In sostanza, è campione, sì, ma non per tutti. In quell'anno infatti, Johnson è accusato di aver violato l'antica Legge Mann, che proibiva di "accompagnare" donne bianche da uno stato all'altro degli Stati Uniti. Tutto ciò combatteva una causa onorevole, certo, come quella della lotta alla prostituzione, se non fosse per il fatto che la donna che brutalmente venne definita "trasportata" da Johnson non era una prostituta, ma la sua fidanzata bianca. Incastrato per prostituzione, condannato, fuggito, ricercato. Tutto nel giro di un anno. Dopo l'inevitabile resa e la prigione nel 1920, il campione combatterà ancora reggendo sulle spalle il peso dell'onta subita, salvo poi consacrarsi come uno dei più potenti simboli black di tutti i tempi.
Tornando al presente, il discusso presidente americano Donald Trump ha dichiarato di aver appreso la storia di Johnson (dall'attore e amico Sylvester Stallone, notoriamente caro a questo sport) e di volersi muovere verso la concessione della grazia al campione nero, una mossa onorevole che già molti presidenti prima di lui avevano sfiorato ma mai concretizzato, primo fra tutti il suo predecessore Barack Obama.
Urge però un ragionamento. Che cosa sappiamo della questione razziale negli Stati Uniti? E, soprattutto, gli avvenimenti recenti hanno dei precedenti o, meglio ancora, un significato sociale? Andiamo per gradi.
Un dilemma americano
Durante il primo dopoguerra (quindi necessariamente dopo il caso Johnson) lo svedese Gunnar Myrdal si lancia nella ricerca circa i fattori che impedivano (e impediscono) alla maggioranza bianca la totale presa di coscienza dei valori afroamericani.
Più tardi, questi studi presero il nome di dilemma americano, ossia le discriminazioni perdurate all'abolizione della schiavitù che relegavano le comunità nere in posizioni svantaggiate, tanto politicamente quanto residenziale e nel mercato del lavoro. Le ragioni di questo osceno fenomeno sono da ricercarsi nella scala sociale: in un'America sempre più industrializzata, le minoranze etniche non riescono più a permeare nel tessuto sociale del già variegato melting pot di culture che abita il suolo americano, finendo col rappresentare l'ultima ruota del carro, a differenza di tutti gli altri grandi flussi migratori che prima di loro si sono insediati nel territorio. In sostanza, un brutale "chi tardi arriva male alloggia" in cui una società di immigrati, come spesso veniva definita, rifiuta gli ultimi giunti al confine.
Questa è senza dubbio la madre di tutte le risposte per quanto riguarda la nascita del pregiudizio razziale che ancora oggi dilania il cuore americano, un cuore che ogni giorno sembra fare passi avanti quanti sono i passi indietro nell'accesa lotta all'ingiustizia razziale. Il problema, come in molti altri casi, è quel "ancora oggi" che tanto impegna politici e sociologi nella ricerca di una verità che sembra sempre più da rintracciarsi nella vittima, piuttosto che nell'autore del crimine.
Questo, tristemente, pare essere un diabolico punto di arrivo. La minoranza nera negli Stati Uniti ha vissuto e continua a vivere un serrato processo di vittimizzazione, in cui ella stessa procede sulla strada che la comunità bianca ha battuto per lei e che porta, inesorabilmente, a ciò che la vittimologia chiama precipitazione, riferendosi all'insieme di fattori causali che provocano il reato stesso.
Oggi questo processo e soprattutto l'insieme di questi fattori tengono ormai le briglie del pensiero di sociologi ed antropologi circa la moderna situazione razziale. E' noto infatti, come sostiene lo stesso Myrdal, di come la discriminazione ed il pregiudizio creino in chi ne è vittima un'auto-immagine di inferiorità in cui si rispecchiano, e quindi in comportamenti che confermano il pregiudizio. Le vittime, dunque, inconsciamente fanno di tutto per restare tali mentre le più basse classi sociali vivono in primo piano i muri che le diverse ramificazioni del tessuto continuano ad erigere, sempre più alti e massicci.
E così lo studio sembra arrestarsi. Scoperta la causa, l'antidoto ad uno dei più grandi mali che da sempre stringe il mondo occidentale tarda a mostrarsi, rischiando addirittura di non vedere mai la luce.
Il moderno caso Johnson, infatti, non è che una piccolissima goccia versata in uno fiume in piena, straripante, a cui i sociologi hanno già dato un nome che oggi più che mai suona amaramente sarcastico: azioni positive (affermative actions). Queste consistono nel riservare agli esponenti delle minoranze (di conseguenza, non solo la già citata minoranza di colore) uno quota di posti all'ammissione scolastica ed universitaria, nell'assunzione pubblica, nell'assegnazione di appalti pubblici, di titoli, onorificenze e altri piccoli espedienti che sembrano in parte accomodare parte dei gruppi coinvolti.
La verità, purtroppo (e qualcuno direbbe anche naturalmente), è che la grande maggioranza della popolazione nera resta ancorata al fondo della società, segregata in quartieri fatiscenti in cui la criminalità fa la parte dello stato e la tossicodipendenza spesso è il padre più affettuoso.
E' lecito dunque chiedersi se la grazia che il presidente Trump sembra in vena di concedere a Jack Johnson sia un effettivo e sincero flusso di coscienza civile e, perché no, sportiva o se questa non sia da annoverare nel già strampalato catalogo che racchiude gran parte delle azioni positive discusse in precedenza. E' logico, secondo la maggior parte degli intellettuali americani, assecondare la seconda ipotesi, anche e soprattutto se, a sentire i notiziari, dall'anno della condanna ad oggi sembrano passati molto meno dei reali 98 anni.