Possibile che il tempo della vita sia scandito ad intervalli irregolari dai colpi di kalashnikov, delle bombe, delle esecuzioni? Sì. I dati dall’inizio del 2018 segnano una netta ascesa delle vittime di mafia: i numeri registrano almeno una ventina di esecuzioni ricondotte alla mano mafiosa nei primi 4 mesi, segnando il trend peggiore dell’ultimo quinquennio che segnala un caso sospetto ogni 5-6 giorni. I riflettori da fine aprile sono accesi sulla Puglia, dove Giambattista Notarangelo viene massacrato mentre andava a nutrire i maiali. Un episodio che porta ad una escalation di morti, provocando una controffensiva nei confronti del clan rivale che perde Antonio Fabbiano nella stessa località, Vieste in provincia di Foggia, svegliata da venti colpi di kalashnikov coi quali si segna l’avvento di una mattanza che da anni non trova epilogo.
Troppo ottimisti i commenti di chi credeva nel minimo storico del 2017, anno in cui si segnalano ‘solo’ 46 vittime in 12 mesi, una media di una esecuzione ogni 8 giorni; una media destinata a segnare un triste primato che rimarrà vano conforto, un’oasi di piccolissime dimensioni irrorata dal sangue di Fortunata Fortugno, Annamaria Palmieri e delle altre vittime egualmente ripartite tra le cosche affiliate a Cosa Nostra, alla Camorra, alla ‘ndrangheta, alle mafie pugliesi.
Lo stato attacca, la mafia uccide. La crescita esponenziale dei numeri delle vittime di mafia è dovuta in larga parte alla pressione statale, come evidenziano le parole di Matteo Frasca, presidente della corte d’appello palermitana: ‘Cercano spiragli diversi, gli omicidi aumentano’.
L’offensiva statale con le retate stringenti degli ultimi tempi, riportano alla luce una faida sempre più inabissata: la lotta per la sopraffazzione che l’antistato mafioso tenta di vincere contro lo stato e le istituzioni vive di colpi bassi, di blitz, di segnali di un potere che uccide per autolegittimarsi, alternando un attacco frontale ai molto più frequenti ‘flirt’ con cui alcuni apparati deviati delle autorità sono abbindolati dalle cosche.
Un gioco di infiltrazione, di immersione negli abissi dei segreti statali e di uscite allo scoperto che contestualmente coprono altri soggetti, offuscano la vista sino ad annerirla del tutto per poi riprodurre un ulteriore contrasto, il bianco del lenzuolo adagiato su strade, marciapiedi, spiagge. Un atto di pudore, di rispetto postumo, perpetrato dalle tradizioni greche e sviluppato in un tempo futuro che arriva un attimo in ritardo e con la sgradevole sensazione di conoscere già il finale: una lacrima, un fiore, una tomba e un altro nome tra le vittime di una violenza inaudita.
Due dati saltano all’occhio: il primo riguarda la ‘ndrangheta calabrese, una mafia che nei tempi recenti ha aumentato il numero delle sue vittime e abile nel detenere contatti privilegiati negli ambienti di settore coi narcos sudamericani. Rapporti che giocano con codici e numeri in sequenza nel tentativo di bypassare gli estranei alla faccenda, quegli 007 che troverebbero niente di più che un codice ad hoc creato appositamente per sfuggire ai loro controlli.
Il secondo dato interessante è di carattere qualitativo: segna la riposta di Vincenzo Mazio, 19enne napoletano che l’8 aprile scorso nei pressi di Case Nuove è stato trucidato a colpi di mitraglietta. Il ragazzo, giunto in ospedale, un attimo prima di entrare in coma afferma di essersi fatto male da solo.
Una mafia che uccide e fa paura, una mafia che nulla ha da invidiare al blocco storico degli ’80-’90 presentando tuttavia un cambiamento fondamentale: la presa sulle piccole-medie amministrazioni comunali che si oppone alle logiche assolutistiche passate.
Quell’illusione chiamata legalità
‘La mafia non ha vinto’, titola un libro dello storico Salvatore Lupo, e non potrebbe affermarsi diversamente, almeno finchè esisterà un apparato statale o, meno drasticamente, finchè ogni 21 marzo Libera scenderà in piazza in ricordo delle vittime innocenti di mafia. Una ricorrenza nata dal dolore di una madre che ha perso il figlio nella strage di Capaci e non sente il suo nome riecheggiare, abbandonato all’oblio e al tormento di una singola persona.
Molto frequenti invece sono i richiami a Falcone, Borsellino, Peppino Impestato, e tutti i membri delle istituzioni o i militanti che hanno perso la vita in onore di una lotta considerata più importante del proprio corpo, una battaglia da anteporre a tutti gli interessi superflui.
La mafia non ha vinto, dunque, ma forse non ha nemmeno perso. Non guardando i numeri riportati nel documento quadrimestrale; non interrogandosi sulle scorie lasciate da coloro che nel ricordo sono gli emblemi della lotta alle mafie. È lecito interrogare la storia sull’esito derivato dall’esplosione di quel tritolo, cercando tra i resti gli stralscichi di una potenziale coscienza antimafiosa che normalmente si sviluppa dopo un tragico evento in grado di scuotere le sensibilità popolare.
Emerge una sentenza, prima d’ogni cosa, datata venerdì 20 aprile 2018, con 7 minuti e 50 di lettura che irrompono pesantemente sulla tradizione storico-politica italiana: lo stato è colluso con la mafia. La sentenza di condanna nei confronti di varie istituzioni mostra come la fantomatica Trattativa tra lo stato e la cupola sia realmente esistita, evidenziando contestualmente la trasversalità dell’intervento mafioso che ruota dall’attacco frontale alle istituzioni democratiche, all’aggiramento del vincolo legale arrivato sino alla collusione, passando per il controllo della microcriminalità in cui spesso gli affiliati risultano essere minorenni.
Emerge dunque l’abilità mafiosa nel creare ponti con l’esterno (vedasi ‘ndrangheta e Narcos), ma anche e soprattutto all’interno dove la protezione e l’aiuto offerto a chi ne ha bisogno sposta il favor popolare nella direzione criminale, ottenendo un appoggio che è un primo elemento di contrasto in grado di ergere la criminalità organizzata a ruolo di antistato.
D’altro canto la creazione di un terreno di scontro tra un buono e un cattivo crolla con la caduta del muro di silenzio e d’ incertezza che per anni ha perimetrato i presunti rapporti tra mafia e istituzioni, messi alla luce dalla sentenza sulla trattativa di qualche settimana fa.
Viene ad essere demitizzato dunque il tentativo di ricondurre sotto una prospettiva statale le figure di alcuni magistrati come Falcone e Borsellino che spesso lottavano contro coloro che dovevano difendere la stessa legalità per cui sono morti, prima ancora della lotta ai baluardi delle cosche mafiose. Diversi fattori riaggomitolano i fili di un tessuto che contiene una tesi e il suo opposto e il gioco di antinomie è sempre più pressante nella psicologia dei cittadini delle zone più sensibili al fenomeno, in cui la percezione dell’abbandono dello stato è canalizzata prontamente verso il favore mafioso, un nuovo eroe da osannare.
Restano i lavori di Libera e dei privati cittadini pronti a riempire le assemblee scolastiche per sensibilizzare una coscienza popolare che proietta lo stesso gioco di luci e ombredi cui è intrisa la storia italiana: una storia di contatti, d’intrighi, di distanze e nuovi avvicinamenti, una storia avvolta nel velo bianco e postumo, un attimo in ritardo e con la sgradevole sensazione di conoscere già il finale.