Ci sono date impossibili da dimenticare, date che sono in grado di cambiare le sorti di un paese come quella del 23 maggio 1992 per l’Italia. Alle 17.45 circa atterra all’aeroporto di Punta Raisi di Palermo, un aereo dei servizi segreti con a bordo il direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, Giovanni Falcone, insieme alla moglie, Francesca Morvillo. Al loro arrivo, trovano, come di consueto, tre auto della scorta che li aspettano: una Croma bianca, una marrone e una azzurra. Il giudice decide di guidare la prima con la moglie accanto mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, va ad occupare il sedile posteriore.

Lui infatti, guida solo quando Francesca non è accompagnata dal marito che, nonostante tutto, cerca di mantenere il più possibile la sua indipendenza.

Una vita per la giustizia

Indipendenza persa nel 1980, anno in cui gli venne affidata la scorta perché diventato un personaggio scomodo per Cosa Nostra, a seguito delle sue indagini che svelarono i collegamenti tra mafia siciliana e mafia americana. L’attenzione da parte dei boss mafiosi non lo intimorì e il magistrato continuò a svolgere il suo lavoro, a Palermo e a New York, per comprendere meglio le dinamiche e i collegamenti con la mafia oltreoceano. Nel 1984 creò, insieme al suo collega e amico Paolo Borsellino, e i magistrati Caponnetto, Di Lello e Guarnotta, il pool antimafia che arriverà, nel 1986, a costituire il primo grande processo contro la mafia in Italia, il Maxiprocesso di Palermo che inflisse 360 condanne, per un totale di 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire in multe da pagare.

Nel 1988 il consigliere istruttore della procura di Palermo, Antonio Caponnetto, designò Falcone come suo successore, ma nella notte del 19 gennaio, durante una seduta straordinaria del Consiglio superiore della Magistratura, l’incarico verrà affidato ad Antonino Meli. Per Falcone fu un duro colpo ma fu soprattutto un segno tangibile, per la mafia, della disistima nei confronti del magistrato.

In pochi mesi le direttive del pool verranno modificate per poi essere smantellato definitivamente nel luglio del 1988. Un mese più tardi, arriverà l’ennesima batosta per Giovanni, che non verrà scelto come capo dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia. Nonostante le numerose delusioni e il fallito attentato dell’Addaura un anno più tardi, lui proseguirà con tutti i suoi impegni, fino a quando nel 1991 verrà trasferito presso il ministero di Grazia e Giustizia.

Undici giorni prima dell’attentato, in un convegno organizzato dall’AdnKronos a Roma, giunse un foglietto anonimo nelle mani del magistrato, che lo avvertiva dell’arrivo della sua ora. Falcone, considerato un eroe solo dopo la sua morte, era rimasto solo. Pochi giorni prima di morire affermerà “Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano.

L'attentato

E così fu. Alle 17.58 del 23 maggio, allo svincolo di Capaci, Giovanni Brusca, conosciuto anche come lo scannacristiani per la sua ferocia, azionò il telecomando che porterà all’esplosione di oltre mille chili di tritolo. Perderanno la vita sul colpo i poliziotti Vito Schifani, Rocco Dicillo e, il capo scorta, Antonio Montinari mentre Giovanni Falcone e Francesca Morvillo moriranno poche ore più tardi in ospedale, dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, rispettivamente alle 19.05 e alle 22.

A distanza di ventisei anni dalla sua morte, è un obbligo morale, per chiunque si senta italiano, ricordare questa figura che ha scritto la storia del nostro Paese. Infatti, non si può parlare di mafia senza pensare a tutto il suo operato. A costo della sua vita, si è battuto per un’Italia migliore, libera, perché la mafia non è affatto invincibile; è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.