Si trova in California quella che è stata descritta come la “casa degli orrori”. Due genitori, Ina Rogers e Jonathan Allen picchiavano e torturavano i propri figli: ben dieci bambini trovati in condizioni terrificanti a seguito di abusi e torture fisiche e psicologiche. Secondo quanto reso noto alle autorità giudiziarie, i bambini venivano continuamente strangolati, morsi, colpiti con proiettili di gomma e manganellate e a seguito di queste torture riportavano numerose cicatrici ed ossa rotte. Tra le sevizie di ogni tipo anche quello che è conosciuto come waterboarding.

Waterboarding: la simulazione dell'annegamento

Il waterboarding è traducibile in italiano come “simulazione di annegamento”. Questa forma di tortura consiste nell'immobilizzare un individuo facendo in modo che i piedi si trovino più in alto della testa, dunque porlo su un piano inclinato, e poi versargli dell'acqua sulla faccia. In questo modo il livello dell'acqua, grazie all'inclinazione, permetterà un vero e proprio “effetto annegamento”.

L'effetto però pare essere più psicologico che fisico. L'acqua viene versata sul viso che è coperto da un telo, da un bavaglio o da cellophane. L'acqua in certi casi non entra effettivamente nelle vie aeree ma l'esperienza che la mente fa di quel momento è proprio quella di stare per soffocare.

Questa tecnica è assolutamente da considerarsi una tortura perché la paura di essere uccisi lascia alla mente umana un ricordo terrificante e delle conseguenze assolutamente tangibili e non indifferenti.

Profili psicologici: torturato e torturatore

Per quanto si possa parlare di profili psicologici, non sempre è il caso di azzardare la sovrapposizione di questi profili a specifici disturbi clinicamente diagnosticabili.

Da osservatori verrebbe da ipotizzare che il torturatore possa essere affetto da un disturbo sadico di personalità e che la vittima sviluppi a seguito delle torture perpetrate un disturbo post traumatico da stress. Se la seconda ipotesi è certamente più frequente, non è così certo anche per la prima.

Effettivamente però, il solo gesto di torturare ha in sé una nota riconducibile al “seviziare e provarne un piacere”.

Questo potrebbe chiaramente essere ricondotto - come nel caso in cui la tortura fosse utilizzata a scopi, se così si può dire, giuridici, negli stati in cui essa è ammessa come tecnica per estrapolare informazioni e confessioni - ad un legame ideologico per cui anche la tortura può trovare le sue radici nell'orientamento politico.

Oppure, in altri casi, questa pare essere messa in atto senza particolari ragioni, posta in essere per il puro gusto di farlo. In questo caso è chiaro che, come qualsiasi tipo di azione che pare mancare di un fine preciso, essa deve provocare nella persona un qualche tipo di gratificazione.

Ecco che la componente del piacere subentra, nelle sue più svariate forme. Non si manifesta necessariamente come puro piacere riconducibile al sadismo e non per forza essa assicurerà al torturatore in questione una diagnosi per disturbo sadico di personalità.

Ma di certo non possiamo escluderne la spinta di gratificazione.

Nel torturato invece, il percorso è sicuramente molto più complesso. Per ciò che è noto, in un primo momento la vittima vive una sorta di dissonanza che si alterna tra il desiderio di morire (in modo che cessino tutte le sofferenze) e il desiderio di essere salvati (sempre per la stessa ragione).

L'ambivalenza del sentimento che si alterna tra la vita e la morte, tra la salvezza e la fine, entrambi mirati alla cessazione del dolore e della sofferenza ha degli effetti terrificanti. Di solito, anche se come in ogni cosa non assolutamente sempre, essi finiranno per sviluppare un DPTS.

In breve: il disturbo sadico di personalità

Il disturbo sadico della personalità, come si può facilmente intuire, riguarda una specifica disfunzione del funzionamento della personalità che si riflette nel trarre piacere dall'umiliazione (fisica o psicologica) di altri.

Esso è caratterizzato, tra i sintomi più noti, da pensieri ricorrenti legati all'infliggere dolore ad altri e ad una spinta alla gratificazione generata proprio da queste azioni. Inoltre molte delle persone con disturbo sadico di personalità non si rendono conto di avere un problema. Chiaro è che il pensiero intrusivo e la spinta alla gratificazione tramite il procurare dolore ad altri non sempre si traducono in azioni qualora ci sia la possibilità di prendere in cura per tempo il soggetto clinico. Altre volte però la spinta all'azione può essere tanto forte da trasformarsi in necessaria: capita, neanche tanto raramente, che il soggetto sadico incontri il soggetto masochista e che la loro relazione volga su un piano di reciproca soddisfazione di bisogni non sani.