"Prego e faccio i conti con me stesso. Faccio i conti con Dio". Lo ha detto al suo avvocato, Gabriele Tadini, 64 anni, da martedì chiuso nel carcere di Verbania. Come lui, sono detenuti Luigi Nerini, 56 anni, a capo della Società Ferrovie del Mottarone, ed Enrico Perocchio, 41 anni, ingegnere con mansioni da certificatore di impianti. Dei tre indagati per la strage della funivia di Stresa, Tadini è l'unico che ha ammesso di aver manomesso il sistema di funzionamento dell'impianto inserendo forchettoni che hanno disattivato il freno d'emergenza.
La sua 'confessione' ha permesso di sapere tutto ciò che finora è noto sullo schianto al suolo della cabina numero tre che domenica 23 maggio ha causato la morte di 14 persone.
Tadini: 'Ho manomesso i freni, Dio mi giudicherà'
Gabriele Tadini, in isolamento in una cella di massima sicurezza, sentirebbe un peso enorme sulla coscienza. Dopo 40 anni di lavoro nella società che gestiva la funivia di Mottarone, era diventato capo servizio: era lui il responsabile del funzionamento dell'impianto e gestiva il lavoro dei dipendenti. Si è addossato tutte le colpe ed è accusato di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e omissione dolosa. Per lui, ma anche per gli altri due indagati, la Procura chiede elevatissime sanzioni detentive.
Martedì sera, Tadini è stato convocato presso la caserma dei carabinieri di Stresa in qualità di persona informata sui fatti. Ha riferito cose penalmente rilevanti, cioè confessato reati: nel giro di qualche ora, alle tre del mattino, era diventato il primo degli iscritti nel registro degli indagati. Ha ammesso che deliberatamente erano stati disattivati i freni d'emergenza che avrebbero evitato la tragica caduta della cabina della funivia.
Una scelta fatta per non perdere corse, e quindi introiti, dopo il fermo imposto dalla pandemia. Con il forchettone inserito, infatti, la cabina difettosa, la numero tre, quella precipitata, non si inceppava più. Durante l'interrogatorio Tadini ha riferito che, dalla riapertura del 26 aprile, c'erano già stati due interventi manutentivi, non risolutivi.
"La funivia funzionava a singhiozzo", ha detto, ammettendo anche che l'impianto idraulico dei freni d'emergenza aveva problemi, perdeva olio, le batterie si scaricavano continuamente. Eppure, la funivia veniva fatta funzionare. "Mai avremmo potuto immaginare che la cima traente si spezzasse. Era in buone condizioni, non presentava segni d'usura. Quello che è successo, è un incidente che non capita neppure una volta su un milione", le sue parole. Quell'incidente ha ucciso 14 persone. I consulenti della Procura sono già a lavoro per capire perché il cavo si sia spezzato, ed è stata sequestrata la scatola nera dell'impianto. La fune era stata installata nel 1998, e l'ultimo controllo è del 5 novembre 2020.
"Prego per la mia famiglia, per le vittime. Farò i conti con Dio", ha detto Tadini dal carcere. Tra consapevolezza e rimorsi, domani affronterà l'interrogatorio di garanzia davanti al gip per la convalida del fermo e della custodia cautelare in carcere. Il suo difensore, Marcello Perillo, ha detto che il suo assistito è pentito e chiederà per lui i domiciliari.
Funivia, il silenzio degli altri indagati
Gli altri indagati, Luigi Nerini ed Enrico Perrocchio, respingono le accuse: non sarebbero stati a conoscenza del blocco del freno di emergenza. Nerini, che ha la concessione dell'impianto fino al 2028, prima di finire in carcere ha detto che sulla funivia del Mottarone salivano anche i suoi figli.
Per il suo difensore, Pasquale Pantano, i processi vanno fatti in tribunale. Perocchio si è dichiarato estraneo ai fatti. Il suo avvocato, Andrea Da Prato, ha riferito che per l'assistito, solo un pazzo avrebbe potuto bloccare i freni, e la presenza dei forchettoni non gli sarebbe stata mai segnalata.
La tesi della Procura
Ben diversa la tesi della procuratrice Olimpia Bossi e della pm Laura Carrera, evidenziata nel decreto di fermo: i tre avrebbero agito in maniera concorde e deliberata per ragioni di carattere economico, nel disprezzo delle più basilari norme di sicurezza a tutela della vita dei soggetti trasportati. Nel provvedimento, la misura del carcere è ritenuta adeguata anche “in ragione dell’elevatissimo clamore internazionale per la sua drammaticità, che sarà accentuato ancora dalla conoscenza delle cause del disastro”.
Inoltre, gli indagati sarebbero stati pronti alla fuga per sottrarsi alle conseguenze processuali e giudiziarie. Per Bossi, intervistata ieri 27 maggio da La Stampa, "qua non c'entra la negligenza, il pressappochismo, quell'errore umano che non rende immuni da responsabilità, ma almeno genera una certa comprensione. Ci troviamo davanti a chi, a fronte di un proprio interesse, ha preferito mettere a repentaglio la vita degli altri".