Potrebbe passare inosservato tra i molti titoli in uscita in questa coda d'agosto, ma 'Il grande quaderno',diretto da Janos Szasz, è un film che merita di essere visto: tratto dal primo capitolo della trilogia della scrittrice ungherese Àgota Kristof, è la storia di due gemelli quasi indistinguibili, profondamente compenetrati, che vengono affidati dai genitori in fuga dalla guerra alla nonna materna, unadonna dall'aspetto rozzo e inquietante, figura quasi stregonesca, che diventa la loro aguzzina, sottoponendoli a ogni forma di violenza fisica, umiliazione morale e angheria psicologica, costringendoli a sopportare orrori e privazioni con un sadismo incontentabile.

L'unico rifugio e' il grande quaderno, un diario regalato dal padre che i bambini scrivono a turno ed e' testimone delle brutalitàsubite, ciascuna delle quali e' una tappa del viaggio verso l'età adulta, il progressivo abbandono dell'innocenza infantile. Ma le pagine di quel quaderno non raccolgono solo le tracce di un disegno atroce: ci sono anche i segni di una forza interiore che progressivamente cresce, una capacità di autodisciplina e una resistenza al male prodigiose.

Siamo in un paesino dell'est Europa, forse l'Ungheria, paese natale che l'autrice lasciò ventenne per la Svizzera insieme al marito e a una figlia piccola. Eppure nel romanzo – e così nel film – la localizzazione è impossibile, perché ogni coordinata spazio-temporale è insabbiata, scolorita nell'indeterminatezza pervasiva dell'atmosfera.

Quasi a dire che questa storia non vuole presentarsi comeepisodio fortuito, ma è, piuttosto, una costante universale, il salto nel buio dell'età adulta che ciascuno di noi compie a un certo punto. Come una fiaba classica, di cui si compone un'ultima versione, la più radicale e disperata, con i piccoli protagonisti alle prese con un percorso iniziaticodallasequenza infinita di prove, un campionario inesauribile di sofferenze e privazioni, con una sola frattura immedicabile, quella della separazione da chi si ama.

La guerra resta sullo sfondo, entra in scena dalle retrovie attraverso echi distorti, proiezioni oblique, sgattaiolamenti improvvisi dai recessi nascosti della narrazione, e questa sua apparente marginalità è solo un modo perché, in fondo, riverberi più potente nella sua dolorosaassurdità.