“Un’esplorazione della maternità che guadagna autenticità ed emozione grazie a un cast superbo... Un mirabile sguardo che esplora con passione opposte idee di maternità”. Suonano così alcune parole zuccherate scritte su Variety da Jessica Kiang. In concorso al Festival di Berlino e già dal 22 febbraio nelle sale italiane, Figlia mia è la seconda regia di Laura Bispuri. Dopo il successo di critica riservato al suo esordio Vergine giurata, presentato sempre alla #Berlinale ma nel 2015, il focus della nuova storia punta su una Sardegna decadente seppur in riva al suo mare di smeraldo.

Una madre snaturata ha concesso di crescere la figlioletta a una donna amorevole e attenta.Il prezzo è la soluzione economica a capricci e cantonate della madre naturale, che vive come un’anima persa. La bambina, con i suoi capelli rossi cresce educata e curiosa, ma l’incontro con questa strana donna che si rivelerà sua madre cambierà tutto.

Ritmi di chitarra, vento, cieli blu, crini rossi e biondi. E poi scenari di pesca, entroterra aspro di polvere e roccia circondano visivamente il lavoro viscerale sui personaggi. Questo #Cinema dall’anima selvaggia ci sbatte in faccia due madri agli antipodi che a un certo punto devono fare i conti con i propri errori. Troppo amore? Troppa dissolutezza? Ecco gli interrogativi ai quali è portato il pubblico.

E su, in cima, i precari equilibri emotivi che la piccola Sara Casu, per la prima volta sul grande schermo, incassa, metabolizza e restituisce col suo faccino lieve, innocente, sempre sospeso tra stupore infantile, scioccanti prese di coscienza e paura di crescere. Spesso il montaggio è a schiaffo. Musica e scene s’interrompono bruscamente per scaraventarci in un altro angolo della storia.

Un effetto forte e voluto per circoscrivere questo triangolo tutto femminile alimentato principalmente dalla dualità tra una madre abusiva e una reietta.

Laura Bispuri vuole comunicare molto e ci riesce con poco

La regista comunica a livello epidermico due poli di maternità grazie all’intensità disperata di Valeria Golino e alla sensualità sprezzante di Alba Rohrwacher.

Due donne agli antipodi che creano un originale Yin e Yang di madri. Seppur con una struttura narrativa debole in alcuni snodi, il dramma arriva a metà film, dopo l’accurata rappresentazione di una Sardegna talmente bordeline da non sembrare neanche attuale. Auto e vestiti farebbero pensare a un’ambientazione anni novanta. Dall’autoradio canta un Gianni Bella del 1981 con Questo amore non si tocca. Forse il vero momento clou di Figlia mia, con la cantata contagiosa della Rohrwacher alla sua bambina. Un pezzo vintage in pratica. Tra l’altro, curiosamente, è anche un momento musicale dal quale tanto ultimo Cinema italiano, soprattutto per scene in auto, non riesce molto spesso ad esimersi. Andando avanti con la storia spuntano fuori uno smartphone e una tv led: scopriamo così che si tratta della Sardegna di oggi.

Ne emerge un’immagine complessiva tanto struggente per i colori della sua natura quanto degradante per una società arcaica fatta di squallidi bar per soli uomini e spiagge per sole donne e ragazze. Immagini crude che vogliono scavalcare il tempo, si fatica a crederle contemporanee.