L’associazione “Corti da legare” è tornata sul palco del Teatro Orione per un ultimo incontro. La serata del 16 marzo è stata dedicata alla schizofrenia, un disturbo mentale di cui, purtroppo, se ne parla spesso scorrettamente. È tra i disturbi che si fraintende di più e si comprende di meno. Ma l’associazione “Corti da legare”, ormai, ha raggiunto il traguardo della sfida che si era imposta, ovvero abbattere il pregiudizio nei confronti delle malattie mentali, dandone ulteriore prova proprio in quest’ultimo appuntamento. Un corto toccante, quello messo in scena, che è un preludio a quello che seguirà: il racconto di Cristiano, che a trent’anni ha cominciato a soffrire di schizofrenia.

Ora ne ha 43 e come dice lui stesso: “anche se gli addetti ai lavori sono contrari a usare questo termine, io di fatto mi sento guarito”.

“Il poeta visionario”

Il corto, scritto da Claudio Romano Politi, è ambientato nel manicomio di Santa Maria della Pietà, a Roma, nel 1920. Lo spettro della Grande Guerra ancora vagava per l’Italia. Ascanio (Daniel De Rossi), paziente schizofrenico, cammina nella sua stanza tra fogli sparsi sul pavimento, pagine piene di dolorose poesie. I suoi dialoghi sono farneticanti, ossessivi, sconclusionati, realtà e immaginazione si confondono. È tormentato dalla figura di Fabia, che altro non è che una sua allucinazione, una visione distorta di Lucia, l’infermiera. Laura Adriani (“Tutta colpa di Freud”) si destreggia con maestria in entrambi i ruoli, che alterna con la stessa frenesia delle parole di Ascanio.

Il poeta “visionario” ricorda ossessivamente un episodio drammatico di guerra: lui che, per obbedire ad un ordine, uccide cento compagni d’armi. “Cento e uno, perché sono morto anche io” ripeterà spesso. Mentre Fabia lo spinge a ricordare quell'episodio di guerra, Lucia cerca di riportare Ascanio alla realtà, ammonendogli di mettere in ordine la stanza, perché “una mente sana si trova in una biblioteca ordinata”.

La biblioteca, infatti, è un’allusione alla mente di Ascanio, che la malattia ha sconvolto, gettandola nel caos. Ma il poeta è stanco, stanco di lottare contro Fabia, stanco di ricordare la guerra, stanco di resistere a Lucia. Come ripeterà ossessivamente, lui vuole solo “riposare sul letto del ruscello” e odorare il profumo della gramigna.

Un evidente riferimento ad un luogo paradisiaco, lontano, irraggiungibile. Perché, come dirà lui stesso, lui non vuole la salute, ma la salvezza. Ma, come si scoprirà, Ascanio non ha bisogno di perdono né tanto meno di salvezza: lui è innocente. È il 1920 e il poeta si trova nel manicomio da 8 anni ormai, ben prima che la guerra cominciasse. I deliri sulla Grande Guerra, infatti, sono iniziati solo nel 1917, dopo essere venuto a conoscenza della morte del fratello sul campo di battaglia. “Non hai ucciso nessuno” gli dice Lucia nel vano tentativo di calmarlo, “e allora perché la biblioteca è in disordine?”, ribatte Ascanio. Un dialogo chiave, senza dubbio, breve, ma commuovente, perché non vi è risposta o ragione alla malattia che lo affligge.

Lucia, innamorata, cerca di strapparlo al delirio e al caos di cui Ascanio è prigioniero, prova a rassicurarlo, dicendogli che il dolore della guerra che sente non è vero. Ma “quanto può essere falso uno strazio, se mi strazia?”. Alla fine, Ascanio inizia a prendere consapevolezza di quello che davvero lo circonda: “qui non c’è nessun campo di gramigna, nessuna biblioteca”, dirà. Tra una poesia e un delirio, Ascanio e Lucia riescono a confessarsi il loro amore in una scena toccante, che dona conforto e speranza. Ma significativa e doloroso, se non addirittura angoscioso è l’addio a Fabia: “vattene via”, le grida Ascanio, ma lei ribatte: “io vado, ma tu resti”. Sul letto del ruscello non riposerà mai.

Era il 1920: chi entrava in un manicomio, non ne usciva più.

Le parole di Cristiano

Cristiano, a differenza di Ascanio, è riuscito ad uscire dal “manicomio”, dalla prigione in cui la malattia lo aveva rinchiuso. Cristiano, come “il poeta visionario”, ha affrontato anche lui una guerra e ha deciso di farne un punto di forza. Ha iniziato, infatti, a raccontare agli altri la sua storia, nella speranza che questo potesse donare donato speranza a chi, in qualche modo, vive a contatto con persone affette da disturbo psichico [VIDEO].

Prima dei trent’anni, Cristiano era un giovane come tanti. Si era laureato con una buona media in giurisprudenza, aveva degli amici, stava con la sua compagna da sei anni e pensava anche a sposarsi.

Poi tutto è cambiato. Una serie di eventi negativi si sono susseguiti l’un l’altro: la sua relazione è finita, i genitori dopo trent’anni di matrimonio hanno deciso di separarsi, i suoi amici più cari si sono sposati e hanno messo su famiglia, trovando sempre meno tempo di uscire con lui, in più il lavoro era precario. “Non ho retto, sono andato in cortocircuito”, dice.

Tutto è iniziato con un disturbo dell’umore, la depressione, a cui poi si sono aggiunte forti psicosi, veri e propri deliri con allucinazioni di tutti tipi, da quelle uditive e olfattive a quelle visibili e tattili. “Mi sentivo come sospeso, vedevo gente che non c’era, mentre vedevo deformate le persone che erano presenti. Vedevo sguardi diabolici, vivevo delle storie parallele”.

Cristiano arriva a parlare proprio per questo di intermundia, di un mondo che si trova tra altri due mondi.

Cristiano è stato ricoverato tre volte in una clinica psichiatrica: nel 2004, poi nel 2009 e, infine, nel 2010. Anni di sofferenze, quelli che si sono susseguiti allo sviluppo della sua malattia, che più che schizofrenia si tratta di un disturbo schizoaffettivo. Costretto ad abbandonare il lavoro perché “se stai così male, come fai a lavorare?”, aveva perso del tutto l’autonomia. Ad aggravare la sua situazione, poi, è stata la sua prima psichiatra [VIDEO], da cui si sentiva trattato come “una cavia da laboratorio”. “Ho provato i farmaci di tutti i tipi e di tutte le marche”, racconta. Su questo punto Cristiano si sofferma, parlando di quanto sia vitale l’umanità per le persone che svolgono un lavoro del genere.

Per questo loda tutti gli infermieri, i dottori, gli psichiatri e gli psicoterapeutici che ogni giorno “gettano il cuore in trincea” per aiutare persone che soffrono come lui.

Dal suo ultimo ricovero, nel 2010, finalmente tutto inizia a volgere verso il meglio: trova la terapia farmacologica giusta, che tutt’oggi ancora assume, e partecipa alla terapia comunitaria, grazie alla quale riesce davvero a rimettersi in sesto. Il tutto, naturalmente, accompagnato da sedute di psicoterapia che continua a fare. Grazie ad un’associazione riesce anche a tornare a lavorare. Parla, in particolare, di una forma di lavoro assistito. Perché come lui stesso ritiene, per ritornare alla realtà non ci vuole solo la psicoterapia, ma anche qualcosa di concreto.

Grazie a questa forma di lavoro assistito, ora sono tre anni e mezzo che ha ripreso a lavorare. Ha finalmente ripreso in mano la sua vita: ha di nuovo degli amici, vive da solo, ha avuto anche una storia d’amore. È riuscito ad “emanciparsi dalla malattia”, come ha detto lui stesso. Cristiano, infine, condivide un insegnamento importante, appreso nei suoi anni in comunità: una persona non è una diagnosi. Ripensando al suo percorso, tra comunità e terapia, Cristiano lascia a tutti un messaggio importante, un messaggio che infonde speranza: “è un po la vita che ti viene incontro, quando decidi di fare un passo per te stesso”.

Una lezione di vita importante

Più che un dibattito, quella che è susseguita al corto è stata una condivisione.

Con paura, ma al tempo stesso con coraggio. E forse è andata meglio così, perché si va verso un mondo in cui l’unica cosa che conta è l’informazione, è il sapere, è l’essere esperti di. Si va verso un mondo che dimentica l’empatia, che dimentica quanto possa essere molto più significativa una condivisione, piuttosto che una lezione. Corti da legare, nel suo ultimo appuntamento, ci ricorda proprio questo: che siamo persone. Prima di essere medici, psicologici, pazienti, noi siamo persone.