Oggi, più che mai, con questo vertiginoso avanzamento in ogni ambito, non è più vista come cosa umana l'errore: un po' perché con il crescere delle tecnologie e l'ampliamento dei suoi campi di applicazione crescono anche le responsabilità ad esse connesse, un po' perché, aldilà di questi campi in cui è necessaria una certa minuzia, l'errore viene visto dalla società come un'inadeguatezza alla gestione, come scarsa affidabilità.

Ci aspettiamo, da chi "sta sopra", una sorta di dote non integrata nell'essere umano: l'infallibilità. Questo porta ad avere anche conseguenze dal punto di vista sociale e personale: infatti, vediamo spesso persone intestardirsi sul proprio pensiero, pur avendo avuto prova della sua invalidità, mostrando coerenza e perseveranza a discapito del "fallimento".

Insomma, è più facile far finta di non vedere la soluzione, piuttosto che rivisitare la propria e scoprire un lembo fragile di se stessi.

Ovviamente, non in tutti è diffusa questa malsana ma naturale tendenza, e c'è chi è consapevole che l'errore permetta di escludere vicoli ciechi, portando su direzioni più funzionali e cercando una via migliore. È innegabile che ci siano circostanze più favorevoli in cui ammettere il proprio flop, rispetto ad altre. Ma è altresì vero che orgoglio, autostima, flessibilità e cultura - quindi tratti legati al singolo - giocano un ruolo decisivo. Altro torchio è decisamente la pressione sociale, le dinamiche innate che, aldilà dei bombardamenti dei mass media, ci portano a cambiare atteggiamenti: le dinamiche del conformismo, ovvero la tendenza individuale a conformare i propri atteggiamenti e comportamenti alle norme di un Gruppo significativo o di un'autorità, e lo confermano numerosi esperimenti.

L'esperimento di Asch

Nell'esperimento di Asch, notiamo come opera l'acquiescenza, ossia un cambiamento superficiale e transitorio nel comportamento e negli atteggiamenti espressi verbalmente in seguito a richieste, costrizioni o pressioni del gruppo. Otto soggetti - di cui solo uno non era complice - dovevano eseguire un compito molto semplice: individuare due linee della stessa lunghezza in un'immagine.

Il soggetto non complice veniva, dunque, testato in due modi.

Nel primo, gli si chiedeva di dare la risposta pubblicamente insieme agli altri partecipanti del gruppo: confermando l'ipotesi iniziale dello scienziato, emerse che le risposte errate dei complici influenzavano quella del soggetto ignaro che, per non "deludere" le aspettative del gruppo, conformava la sua a quella degli altri membri.

Nel secondo modo, al singolo si domandava, con una scusa, di segnare le proprie risposte su un foglio e, in queste condizioni, la persona, non più tenuta a dover dare pubblicamente la sua risposta, segnava le opzioni corrette a scapito degli errori commessi dagli altri membri che, invece, si esprimevano pubblicamente.

L'esperimento di Milgram

Nell'esperimento di Milgram, invece, interviene un'altra dinamica, quella dell'obbedienza all'autorità: il risultato è sempre una rimodulazione del comportamento a sfavore della propria volontà. Simulando, infatti, un finto studio sull'apprendimento, ad ogni partecipante era stato dato il ruolo di "insegnante" che doveva porre delle domande ad uno "studente" (complice del nostro Milgram), e somministrare una scossa elettrica di intensità crescente ad ogni risposta sbagliata.

Il ricercatore supervisionava il finto esperimento stando di fianco al partecipante. Dopo le prime scosse lievi, il complice iniziava a lamentarsi (in accordo con lo sperimentatore) fino a gridare e supplicare di smettere quando riceveva le scosse più forti.

Lo sperimentatore invitava il partecipante a proseguire con frasi prestabilite come "Per favore continui", "L'esperimento richiede che lei continui" o "È assolutamente necessario che lei continui". L'intensità massima delle scosse raggiunte dal partecipante prima di interrompere l'esperimento era la misura dell'obbedienza all'autorità: arrivarono fino alla fine il 65% dei partecipanti. In questo esperimento possiamo ritrovare anche la "logica" che sta dietro al fenomeno antisemita, degli assolutismi in generale, ma anche il fatto che, per gran parte delle persone, pur sapendo di sbagliare, "è meglio fare come mi dicono", sia questa un'autorità - come in questo caso - o un gruppo di pari, come nel caso di Asch.

Non solo il conformismo

C'è da dire che se il conformismo fosse l'unica forma di influenza sociale, la società sarebbe statica. Infatti entrano in gioco molteplici fattori a riguardo. Uno di questi attua un profondo e reale cambiamento in noi, ed è l'influenza delle minoranze. Non tutti i condizionamenti sono negativi, ma ci rendiamo conto di come siamo facilmente influenzabili e inclini allo sbaglio. Senza colpe o meriti, è così per natura, la nostra natura. Non percepiamo esclusivamente logica e ragione, ma altri infiniti fattori non razionali che intaccano la nostra percezione e, conseguentemente, il pensiero e le azioni.

L'interazione e l'influenza di persone e situazioni sono inevitabili, tutti prendiamo decisioni sulla base di cosa ci sembra più giusto al momento o nel breve e lungo termine (a seconda dei tipi di scelta e degli obiettivi), ma è fondamentale cogliere il momento in cui la scelta diventa inefficace o controproducente.

Molte delle cose intorno a noi non sono statiche, di conseguenza una certa scelta, rivelatasi giusta in passato, può non andar bene in altri campi della nostra vita. Non riconoscere l'errore nelle piccole cose è un esercizio che ci impedisce di cogliere i cambiamenti intorno a noi e, al giorno d'oggi, i cambiamenti sono una costante più di quanto non lo fossero in passato.