Nell’immaginario collettivo, i rapper sono sempre stati stereotipati come individui dai modi animaleschi, bruschi, ossessionati principalmente da due cose: le donne e il denaro.

Gli antefatti storici

Negli anni ’90, questo stereotipo è stato largamente incoraggiato da una sorta di new wave che ha investito la scena musicale statunitense, la quale ha trascinato il Rap fuori dal mercato di nicchia, consegnandolo ufficialmente tra le braccia del mainstream. Uno dei principali responsabili di questa transizione, che alcuni cultori del genere non hanno mai assecondato con convinti sorrisi, è senza dubbio Tupac Shakur, un artista che ha saputo superare i limiti espressivi dell’hip-hop, riuscendo nella titanica impresa di parlare ad un pubblico estremamente eterogeneo, anche pop se vogliamo, che ancora oggi – ad oltre vent’anni dalla morte – lo celebra e rimpiange.

Tupac, soprattutto nell’ultimissima parte della sua intensa carriera, ha traghettato la sua arte verso lidi più materialistici, in netto contrasto con la forte valenza sociale che i suoi testi avevano posseduto fino al periodo della sua detenzione (dal novembre 1994 al settembre 1995), quando il nemico numero uno era il poliziotto corrotto e l’eroe assumeva le forme dell’uomo nero perseguitato dall’America inetta e razzista.

Il materialismo, dunque: Tupac, come chiunque sia nato e cresciuto nella povertà del ghetto, non era mai stato estraneo al desiderio di una vita agiata, fatta di belle donne e macchine costose; tuttavia, dal momento in cui il rapper nativo di Harlem spostò la propria residenza a Los Angeles (per accasarsi alla Death Row Records del famigerato Suge Knight), parve fin da subito chiaro anche ai meno attenti che l’allora venticinquenne aveva deciso di alzare l’asticella della pomposità, sovraccaricando i propri testi di spudorate parole che si rifacevano ad un culto ben delineato del dio denaro.

A riprova di quanto appena esposto, ci sono gli ultimi due dischi pubblicati con la Death Row, “All Eyez on Me” e (il postumo) “The Don Killuminati: The 7 Day Theory”, più l’infinito materiale inedito che ancora oggi, a distanza di così tanto tempo, non è ancora stato del tutto rivelato al pubblico. In realtà, però, nonostante il forzato sfarzo urlato nelle rime e i rotoli di verdoni lanciati al vento nei video musicali, Tupac perì in seguito al fuoco di un omicida anonimo, il 7 settembre 1996, sostanzialmente da nullatenente.

Il naufragio economico

Sembra incredibile pensarlo, data anche la fama di uomo sincero e dalle spalle larghe che Tupac si è costruito nei suoi sei anni di onorata carriera solista, ma la controversa verità è che Tupac, dal momento della sua scarcerazione dal Clinton Correctional Facility di New York (fu scarcerato su cauzione ed era in attesa di appello per un caso di violenza sessuale) al giorno del suo assassinio a Las Vegas, non solo non era stato in grado di ristabilire la sua situazione finanziaria (le parcelle degli avvocati ne avevano depredato i guadagni) ma aveva anche finito per indebitarsi con la stessa casa discografica che aveva orchestrato la sua uscita di galera.

La Death Row Records, infatti, nonostante (contrariamente alle credenze popolari) non sganciò mai un dollaro per la cauzione (stipulò accordi finanziari con Interscope e Atlantic Records, dando come garanzia le royalties sulle future vendite del rapper), si permise anche di fare la voce grossa sulle condizioni contrattuali, facendo leva sul bruciante desiderio di Tupac di abbandonare la sua cella, nonché sul fatto che il ragazzo non aveva un manager che ne curasse gli interessi.

È così che nacque quello che oggi gli storici di business discografico conoscono come “Dannemora Agreement”, lo spaventoso contratto che Tupac sottoscrisse nel settembre del ’96 con Suge Knight e David Kenner (rispettivamente patron e avvocato della label losangelina), e che – di fatto – lo fecero diventare proprietà della società.

Non avendo mai avuto accesso ai libri contabili della Death Row, Tupac non fu mai messo a conoscenza delle cifre in entrata e in uscita a lui riconducibili: nonostante il doppio album “All Eyez on Me” (uscito nel febbraio del ’96 e oggi considerato un classico hip-hop) gli stesse facendo guadagnare milioni di dollari, il ragazzo non vide mai un centesimo di quella fortuna, costantemente debitore verso la label di tutti i prestiti di lusso fattigli dal momento del suo approdo in California.

Tupac, infatti, non aveva nulla d’intestato: possedeva un conto corrente, ma la villa, le costose macchine, le cene di lusso e persino il vestiario e i gioielli erano stati tutti pagati dalla Death Row, la quale non faceva certamente beneficenza e utilizzava questi anticipi come scusa per intascare i soldi spettanti all’artista.

Il fatto che la Death Row Records utilizzasse metodi gestionali simil-mafiosi è un dato di fatto, e sono molteplici i processi durante i quali diversi illeciti – alcuni anche molto gravi – sono venuti a galla. Uno di questi è stato intentato, nel 1997, da Afeni Shakur, la coraggiosa madre del defunto Tupac (anch’ella deceduta, nel maggio 2016), ed è proprio grazie alle verità processuali emerse da quel procedimento che oggi sappiamo la vera situazione nella quale visse uno dei rapper più amati della storia, al di là delle congetture e delle superficiali considerazioni.

Grazie alla tenacia di Afeni, quindi, oggi sappiamo quanto segue: al momento del decesso, Tupac aveva sul conto poche decine di migliaia di dollari, una cifra infinitamente inferiore a quella di cui avrebbe dovuto godere e del tutto insufficiente a sostenere il suo stile di vita; negli undici mesi passati alla Death Row, gli furono addebitati ben 4 milioni di dollari di spese che non avrebbe mai dovuto sostenere, tra cui spiccano voci assurde, come l’acquisto di macchine per gli artisti della label, tutta la produzione audio/video dei suoi progetti musicali (quota che, di norma, spetta alla casa discografica), l’affitto sulla casa a Malibu dell’avvocato David Kenner e, addirittura, 3 mila dollari di alimenti per il figlio di Nate Dogg, il celebre cantante dei 213 dalla voce inconfondibile.

Purtroppo, per quanto fosse dotato artisticamente e sia stato un leggendario attivista nel corso della sua breve vita, è oggi appurato che Tupac Shakur non ebbe mai un buon rapporto con il denaro, a volte per scelta, altre per negligenza e altre ancora per costrizione.