A Bruxelles si è conclusa la prima tappa del percorso legislativo sulla nuova metodologia di calcolo per le indagini Antidumping, con l’adozione di una posizione comune del Consiglio. Al via la fase del trilogo con il Parlamento europeo, si attende l'adozione del provvedimento. È uno dei dossier più importanti affrontati negli ultimi tempi, i cui effetti sull'industria italiana e, più in generale, in quella europea sono rilevanti. Per prima, l'Italia ha sostenuto con determinazione l'impegno mirato alla piena tutela degli interessi in gioco. Direttamente dal sito internet ufficiale del ministero dello sviluppo economico si apprende il pensiero del ministro Carlo Calenda riguardante il rafforzamento della "struttura di base del nuovo sistema", vicino "al modello dei maggiori partner internazionali".

Calenda spiega che "si è ritenuto di accettare una soluzione che viene incontro in modo significativo alla proposta italiana". Si punta a uno strumento Antidumping che possa rivelarsi efficace nella lotta alle pratiche cosiddette sleali. Non protezionismo, ma la garanzia che il commercio internazionale possa svilupparsi sulla base di regole condivise, principalmente eque. Una condizione imprescindibile se si vuole un commercio reale motore di crescita e, quindi, di occupazione.

C'è già un regolamento

Si è in presenza di dumping quando un'azienda vende un prodotto con un prezzo all’esportazione inferiore al prezzo praticato nel mercato di provenienza. Per garantire la concorrenza leale per lo stesso prodotto venduto sul mercato dell’Ue da parte dei fabbricanti comunitari, l’Unione può imporre misure antidumping su tali importazioni.

Oggi esiste il Regolamento del Parlamento europeo relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di Paesi non membri dell'Ue, datato 8 giugno 2016, nel qual quale si legge anche che per una "corretta esecuzione delle misure, è necessario che gli Stati membri controllino gli scambi relativi alle importazioni dei prodotti", nonché "gli importi dei dazi riscossi".

Tre tipi di dumping

Il termine inglese “to dump” significa scaricare, sbarazzarsi di qualcosa, eliminare un superfluo, quindi svendere. I primi casi storici di “social dumping” risalgono agli anni Venti del secolo scorso, con l’imposizione di diritti doganali addizionali al fine di contrastare gli effetti di un prolungamento dell'orario di lavoro di un Paese esportatore.

Si conoscono tre tipi di dumping: predatorio, sporadico e persistente. Nel primo caso si registra la vendita di un bene temporaneamente sottocosto all'estero per spingere i produttori a uscire fuori dal mercato. Nel secondo, la vendita di un bene a un prezzo più basso all'estero è occasionale, per disfarsi di un'imprevista eccedenza dello stesso bene senza ridurre i costi interni; nel terzo, si verifica la tendenza continua di un monopolista interno a massimizzare i profitti totali vendendo il bene a un prezzo maggiore sul mercato interno che su quello internazionale. Il dumping predatorio è ritenuto largamente una pratica scorretta. Le misure antidumping si estrinsecano in un dazio all'importazione uguale al margine di dumping, la differenza tra il prezzo di vendita sul mercato estero e il valore normale.

I dazi vengono pagati dall’importatore nell’Unione europea e riscossi dalle autorità doganali nazionali dei paesi dell’Ue interessati. Grandi compagnie spesso chiedono alla Commissione Europea di proporre un imposta antidumping contro i loro concorrenti stranieri. Tra i principali Paesi europei che hanno ricorso, in tempi recenti, al dumping fiscale, la Germania, l'Irlanda e la Francia.