Se state cercando lavoro, vi sarà capitato di imbattervi in annunci nei quali era presente un limite di età, a prescindere dalle competenze o dall'esperienza. Probabilmente vi sarete anche imbattuti in offerte di Lavoro per voi apparentemente consone e legate alle vostre competenze ma, alla fine, accompagnate dalla fatidica frase: max 35 anni, max 40 anni e così via. In molti casi, il fattore età è proprio il primo che l'esaminatore considera per andare avanti o meno nella lettura del vostro percorso lavorativo.
Accade così che spesso, a 40 anni, ci si sente tagliati fuori da ogni possibilità.
Considerando che l'età pensionabile si sta alzando sempre di più, e che già si parla di un nuovo innalzamento a 70 anni, i 40enni o 50enni dovrebbero ritenersi nel pieno delle rispettive vite professionali, e non degli scarti della società.
Intervista all'avvocato Rotondi sulla discriminante dell'età
Dopo aver raccolto svariate testimonianze in merito, abbiamo contattato l'avvocato Rotondi, socio fondatore di LabLaw, professionista a 360° specializzato in diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Ad oggi è l'unico giuslavorista inserito nella classifica dei 40 avvocati under 50 più influenti d’Italia. Il dottor Rotondi ha risposto alle domande che molti di voi si sono posti, in merito alla discriminante età nella ricerca di un lavoro.
Candidature scartate senza guardare il CV, fermandosi ai numeri della data di nascita: spesso sulla base di calcoli approssimativi, se non di veri e propri pregiudizi. È legale mettere limiti di età negli annunci se questi non pregiudicano la possibilità di svolgere in maniera ottimale il lavoro?
Nel nostro ordinamento è affermato il principio di parità di trattamento fra le persone senza distinzione (tra l'altro) di età, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro.
Principio, questo, che si applica a tutte le persone, nel settore pubblico e privato, suscettibile di tutela giurisdizionale, anche con riferimento all'accesso all'occupazione ed al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione.
Tali affermazioni subiscono, tuttavia, alcuni temperamenti.
E, infatti, non rappresentano una discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse all'età di una persona, quando, in ragione della natura dell’attività lavorativa o del contesto in cui essa viene espletata, tali caratteristiche costituiscano un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività stessa. Ciò a condizione che siano, comunque, rispettati i principi di proporzionalità e ragionevolezza e che la finalità della differenza di trattamento sia legittima.
Alle stesso modo, sono fatte salve le disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell’età dei lavoratori, purché oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalità legittime, quali, secondo quanto individuato dalla legge, giustificati obiettivi di politica del lavoro, del mercato del lavoro e della formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento delle stesse siano appropriati e necessari.
Il principio ed i temperamenti anzidetti sono contenuti nelle disposizioni dell’art. 3 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, attuazione, nell’ordinamento interno, della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce il quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Direttiva, questa, nella quale trova espressione, in concreto, il principio di non discriminazione in base all’età che, secondo la Corte di Giustizia, rappresenta principio generale del diritto dell’Unione Europea.
D’altro canto, si ricorda come pure la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cui è attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati, vieti qualsiasi forma di discriminazione fondata sull’età.
Aggiungo, quanto al piano dell’ordinamento interno, come l’art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, faccia divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di "effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso", in base, tra l’altro, all'età, "a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento della attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa".
E, inoltre, come anche le previsioni dello Statuto dei lavoratori (art. 15 della legge 20 maggio 1970, n.
300) costituiscano un importante tassello nell'affermazione di tale principio, sanzionando con la nullità gli atti diretti a fini di discriminazione di età.
D'altronde v’è pure lo stesso art. 3 della Costituzione ad imporre la rimozione degli ostacoli che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione economica e sociale del Paese.
Alla luce di tanto, venendo nello specifico alla sua richiesta se, in via di principio, non è consentito al datore di lavoro di discriminare l’aspirante candidato in base al mero dato anagrafico, la legittimità dell’apposizione di limiti di età all’interno di un annuncio deve essere attentamente vagliata alla luce del caso concreto.
E, segnatamente, in ragione della natura dell’attività lavorativa dedotta nell’annuncio o del contesto in cui l’attività deve essere espletata, così da valutare se tali limiti costituiscano, in effetti, un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività stessa, ovvero in ragione della sussistenza, nella specie, di una finalità legittima, ed oggettivamente verificabile, dei criteri di selezione individuati. Si ricorda, a questo proposito, come limiti di età possano, pure, essere connessi alla forma contrattuale con la quale il datore di lavoro intende assumere (è questo il caso, ad esempio dell’apprendistato e del lavoro intermittente).
La scelta di imporre limiti di età alla selezione espone, in effetti, l’inserzionista al vaglio del suo operato e, eventualmente, ricorrendone i presupposti alla censura dello stesso.
Se una persona, leggendo un annuncio di lavoro, constata di avere tutte le caratteristiche ricercate tranne l’età, può fare qualche azione legale concreta per far valere i propri diritti verso l’azienda proponente o verso l’agenzia che ha formulato l'annuncio?
Si è già detto che, ai fini della legittimità dell’annuncio, le eventuali limitazioni potrebbero essere giustificate solo sulla base dell’attività lavorativa e del contesto in cui l’attività deve essere svolta, e solo se tali caratteristiche costituiscono requisito essenziale e determinante ai fini dell'inserimento, ovvero rispondano a precise finalità verificabili sulla base dei criteri - oggettivi - inseriti nell'annuncio. Circostanze, queste, la cui ricorrenza è difficilmente apprezzabile "ex ante" da parte dell’aspirante dalla sola lettura dell’annuncio.
Per tale ragione, se è censurabile il contegno del datore di lavoro che voglia discriminare in base al mero dato anagrafico, mi sento però di osservare che, sebbene con le semplificazioni procedurali del rito sommario di cognizione (i giudizi civili avverso gli atti e comportamenti discriminatori di cui si tratta sono regolati dall’art. 28 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150), qualora si volesse contestare innanzi al giudice tale comportamento, non sarebbe agevole assolvere agli oneri probatori gravanti in ogni caso in capo al candidato (art. 2697 c.c.).
Non basta irrigidire la legge, servono nuovi incentivi
Secondo Lei, in base anche alla forte crisi di lavoro del nostro paese, ci sarebbero i margini per portare in Parlamento la richiesta di una legge che abolisca queste discriminazioni già a livello di curricula per omologarci a stati come UK e Usa?
In realtà c’è già, nel nostro ordinamento, uno zoccolo duro di previsioni predisposte a tale fine, anche se con le precisazioni già fatte.
A mio avviso, se una critica può essere mossa all'apparato normativo vigente, è quella della eccessiva genericità delle clausole utilizzate ai fini dell’individuazione delle differenze di trattamento che non rappresentano ipotesi di discriminazione e della salvezza - per contro - di disposizioni che prevedono trattamenti differenziati ma ad altri fini - più ampi - (a questo proposito, in particolare, la legge parla di "finalità legittime, quali giustificati obiettivi della politica del diritto, del mercato del lavoro e della formazione professionale"). Da qui una generale difficoltà ad azionare, in concreto, la disciplina protettiva da parte del lavoratore.
Ragione per cui, è forse questo l’aspetto sul quale è possibile immaginare un intervento in chiave correttiva, individuando, con un maggior grado di certezza, quali disparità non possano costituire forme di discriminazione.
Ma, sempre a mio parere, se l’obiettivo è quello di un mercato del lavoro più inclusivo, temo purtroppo, che il fatto di "costringere", con norme dalle maglie più strette, il datore di lavoro a valutare, a prescindere dall'età, l’aspirante candidato all’atto della selezione, non risulti sufficiente, da solo, a scongiurare il rischio di esclusione delle fasce più deboli che, effettivamente, rappresentano oggigiorno un’enorme criticità in un mercato del lavoro come quello che si viene delineando.
Insomma, non basta irrigidire la legge. Serve, piuttosto, agire su leve "moderne", quali l’adozione di politiche di incentivazione all’assunzione e, senz’altro, politiche attive di formazione continua che impediscano l’invecchiamento professionale del lavoratore.
Quale avvocato esperto nel Diritto del lavoro, le è mai capitato qualche contenzioso legato al fattore età (per esempio il caso citato nel suo articolo 'L’età non conta per l’assunzione' su kongnews.it ), com’è andata a finire?
Come professionista ho avuto modo di occuparmi di questioni nelle quali veniva in rilievo la possibilità che la discriminazione avesse a che fare con l’età anagrafica del lavoratore, in relazione alle quali, in effetti, ho sempre riscontrato una certa difficoltà nel provare la bontà dell’intento da parte dell’azienda, ossia che la determinazione datoriale non avesse a che fare unicamente con l’intento discriminatorio anzidetto.
Mi sembra interessante, in questa occasione, segnalare, invece, come nella vicenda, da Lei ricordata, in relazione alla fattispecie del contratto di lavoro intermittente concluso in base all’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, nel testo allora vigente (oggi sostituita dal D.Lgs. n. 81/2015), la Corte di legittimità, successivamente adita, avesse rimesso la questione, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia, chiedendo di giudicare se la normativa posta dall’art. 34 citato fosse contraria al principio di non discriminazione in base all’età di cui alla Direttiva 2000/78 CE ed alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Corte (con la sentenza del 19.7.2017, resa nella causa C-143/16) ha dichiarato che gli articoli inerenti (…) devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari".