Al re Emanuele del Portogallo bastarono 13 navi e 1200 uomini per conquistare il Brasile, il "Paese del Carnevale" come lo chiamò Jorge Amado, nel 1931. Il Paese col più grande avvenire nel mondo, come ne disse lo scrittore Zweig, apparve tale forse già quando il navigatore Cabral, nel 1500, ne scorse per caso la costa e lo chiamò Vera Cruz. Poi, divenne "Brasil", termine iberico che definiva taluni tipi di legno amerindi, da cui s'estraeva la rossa sostanza "brasileina".

Meta per conquistadores in cerca d'oro, o di missionari a caccia d'anime; terra di zucchero e cacao, spezie e caffé, oro, argento, diamanti, cotone e caucciù.

Landa di schiavi e sudore, sofferenza e disagio; depredata di vite e sostanze. Gli indios all'improvviso scoprirono d'essere indigeni e di dovere obbedire a un dio e ad un re sconosciuti. Il loro etnocidio, pari a 5 milioni di morti, accompagnò i patimenti infiniti di mulatti e meticci.

Nel Brasile attuale, coi suoi 201 milioni di "corpi", tra oceani e foreste, voraci metropoli e immani coltivazioni di canna, sono fluiti miliardi di dollari, impiegati per strutture sportive e destrutturazioni corruttive; per fortificare imponenti edifici e impoverire comunità estese. Il mondiale FIFA nel Paese del football celebrerebbe l'epica del mito. Ma il mondo che guarda non ha la pazienza di soffermarsi a riflettere, oltre l'appassionante tema agonistico: lo svago non vuole disagi, aspira a godere.

Il calcio in Brasile appare come l'ultima traccia d'un surrealismo creativo, trasfuso nella stentorea neo-plutocrazia dei Brics. Lo scrittore Stefan Zweig diceva: "…dotato dalla natura di spazio e di infinite ricchezze… aspira a trapiantare nella sua terra inesauribile uomini provenienti da regioni sovrappopolate, intrecciando il vecchio col nuovo e creare un'altra civiltà".

Terra del futuro, definì il Brasile nel 1941, aggredita già nel 1964 da una dittatura militare feroce, spalleggiata dagli USA. Nel 1984, superata la "crisi", il suo Pil poi s'avviò ininterrottamente a crescere. Mai in guerra, dopo i presidenti Cardoso e Lula, il Paese ha prodotto passi in avanti vistosi. Modello etno-culturale sincretico, allegro e sensuale, è però anche "spazio" ambiguo e violento.

Dunque: paradigma della terza via oltre-occidentale o regione tecnologica industrial-neo-barbarica? Di fatti, tropicalismo, fusione inter-etnica e sincretismo religioso non arginano le continue contestazioni anti-sistema. Scontri e cortei, placati con militare fermezza, negano anche all'evento mondiale di costituire riscatto dai disagi indicibili, causati dall'inadeguatezza efferata d'una lunga sequela di classi dominanti.

Difficoltà drammatiche e iniqua distribuzione di opportunità e diritti, ghettizzano imponenti - per numero - fasce sociali, dissipando l'enorme patrimonio di biodiversità del Paese. Musica e calcio, come sfruttamento e favelas; ansia di libertà espressa nel sambodromo e cultura blandita da "lusitanismi" antichi.

Creatività e tecnologia, gas e petrolio, come violenza e miseria; 37.000 mila assassini per anno, maltrattamenti alle donne e infanzia sfruttata. La classes oprimidas non va in Paradiso, ma il Paese già siede in casa G7. E dunque, una saudade più amara, liftata di marketing occlude gli asfittici pori di un mondo dalle innumerevoli doti, tuttora inespresse. Il gigante dovrebbe destarsi, potrebbe, per superare l'enfasi dei luogi comuni, e valicando gli eventi che non redimono affatto, preservare la cara dell'integrità brasileira.