Ho preso confidenza con il mondo dell’Arte all’età di tre anni, e da quel momento non me ne sono più andata. Questo cammino mi ha permesso di capire, molte volte, ciò che si nasconde dietro al genio creativo, di cogliere le potenzialità espressive di una situazione e di vedere la bellezza in ogni dove. Quando ho visto per la prima volta la mostra "Hypothesis" di Philippe Parreno all’HangarBicocca di Milano, con orgoglio e stupore ho visto i miei sogni e desideri prendere vita, come poche altre volte mi era capitato prima.
Sì, perché "Hypothesis" è "LA" mostrain grado di mettere d’accordo tutti: democratica e popolare, e allo stesso tempo colta e raffinata, che sa parlare la lingua della contemporaneità e dei sogni.
Ho sempre apprezzato le esposizioni corali, nelle quali per coralità si intende una moltitudine di medium espressivi che agiscono insieme per un progetto comune. Un ensemble congeniale alla riuscita dell'esibizione, perché permette al suo animo di esprimersi al meglio e, soprattutto, di essere compreso da (quasi) tutti: uno spazio può cambiare forma e volto grazie a chi lo abita, a ciò che ci si inserisce, a come lo si sfrutta; i suoni possono trasformare un interno in un esterno, spaventarci, provocare dei corto circuiti e dare vita ad un valzer agitato di fiocchi di neve che danzano al vento .
La Mostra
Per chiudere il suo percorso come curatore di HangarBicocca, Andrea Lissoni ha racchiuso in una sola esperienza la "summa" delle sue fatiche passate: troviamo così riferimenti ad Apichatpong Weerasethakul, a Joan Jonas, alla musica che fu di Ragnar Kjartansson, a Carsten Nicolai e a Mike Kelley (sempre presente nelle navate di Hangar).
Suggestioni che nel percorso pensato ad hoc dall’artista francese per lo spazio milanese coinvolgono altri nomi celebri del panorama contemporaneo dell’arte, da Rirkrit Tiravanija a Douglas Gordon e Pierre Huyghe; musicisti come Devendra Banhart e Agoria; il mito di Marilyn Monroe e gli anni delle sperimentazioni e delle collaborazioni dove Cage la faceva da padrone.
Le opere
In due ore di esperienza immersiva nello spazio si ha la possibilità di trovarsi a Broadway, di sentire le macchine sfrecciare sull’asfalto (Danny the Street), poi improvvisamente di stare seduti su un molo, all’alba, a vedere la città svegliarsi dolcemente, cullati dal suono delle onde (Another Day with Another Sun).
Ci sono anche pioggia e neve che sembrano investirci e bagnarci, interrompono i sogni di un bambino cinese di New York (Invisibleboy), il lavoro di bufali tailandesi (The Boy from Mars) o il racconto di Marilyn nella sua profonda malinconia (Marilyn). È tutto un entrare gradatamente verso il cuore di meccanismi fragili e affascinanti, che possono anche incepparsi e generare nuove fascinazioni dello spazio, interiore ed esteriore. Come una palla che, rimbalzando da una mano all’altra, rende il gioco non più condotto da uno solo, ma da tutti, pubblico compreso; un moto rotatorio entro il quale, ad un certo punto, i ruoli non si comprendono più e ci si trova a provare le stesse emozioni di una folla sullo schermo, in una coincidenza totale di tempi (The Crowd).
Interazioni, invasioni, dialoghi, cooperazioni e collaborazioni pratiche che fanno crescere in modi sempre nuovi e inaspettati un’idea, che permettono ad un (di)segno di fare esperienza e di acquisire una identità ben precisa, fino a liberarsi da ogni vincolo, in modo da poter appartenere solo a se stesso (Anywhere Out of the World). Così gli accenni, le ombre, gli elementi non palesati o nascosti danno allo spazio la possibilità di esprimersi in infiniti modi.