"Ho vissuto la mia giovinezza in un quartiere popolare, e posso affermare di non avere mai conosciuto un senso di solidarietà così forte come in periferia" (Samuel Benchetrit).
Una squallida palazzina che cade a pezzi viene trasformata in uno struggente teatro di malinconia. Il regista, Samuel Benchetrit - francese di origini marocchine - ci racconta con una velatura di ironia le vicende di personaggi solitari, tristi, mediocri, emarginati dalla società. E' la storia dei loro incontri, incontri di solitudini, attraverso cui l'animo intorpidito di ciascuno riesce a riscattarsi e a trovare un lampo di gioia nella semplicità dei rapporti umani.
Benchetrit vuole mettere in gioco proprio questo: la genuinità del volersi bene. Felice è chi sa amare, diceva Hesse.
Abbiamo un adolescente che beve latte e va in bicicletta, e la sua nuova vicina, Jeanne Meyer, attrice in lento decadimento alla disperata ricerca di un ruolo da protagonista.
Abbiamo la gentile signora Hamida, con le sue prelibatezze culinarie, che si trova ad accogliere nel proprio appartamento un astronauta americano disperso, John Mckenzie.
Abbiamo il signor Sternkowitz, timido e stravagante, che si spaccia per un rinomato fotografo della National Geographic per far colpo su una rassegnata infermiera che lavora di notte (Valeria Bruni Tedeschi). Perché mi vuole fotografare?
. Risposta: perché è bella.
Lo stile di Benchetrit è affascinante. Le inquadrature fisse vanno a concentrarsi sui volti pallidi dei personaggi, mettendo in risalto la loro atonia emotiva improvvisamente spezzata dalla bellezza dell'incontro con qualcuno che, nonostante tutto, ti fa sentire speciale. Il fattor comune che il regista ripropone in ogni storia è un rumore sinistro e misterioso.
Le ipotesi sono varie e fantasiose - un bambino che piange, una tigre, il demonio - ma è semplicemente lo sportello di un pick-up che continua a sbattere e cigolare. E' la banalità del quotidiano. E' l'asfalto. Benchetrit, in neanche due mesi, è riuscito a realizzare una pellicola commovente.