In attesa della sesta serie di "Coliandro" - verità oramai conclamata nel web - ognuno di noi può saziare la sua voglia vintage attingendo a Rai 2 - il mercoledì e venerdì - oppure optare per un buon streaming della quinta serie su Rai Replay. In attesa allora di vedere come è venuta fuori la prima serie dei Bastardi di Pizzofalcone di Maurizio De Giovanni che la Rai proporrà a gennaio con Alessandro Gassmann in questi giorni prenatalizi mi chiedevo il perché mi piacesse "Coliandro" che tra i quattro - compresi Montalbano e Schiavone - pur essendo un prodotto di Carlo Lucarelli e dei Manetti è il meno letterario di tutti.
La risposta come spesso mi succede mi è venuta dalla realtà reale, come dicevano i Radicali negli anni '80: "perché è il più vicino alla realtà di tutti". La frase è di un mio amico che il poliziotto lo fa per davvero e spiega il successo di questo ispettore-capo che dal 2006 ammalia pubblico e critica. Coliandro ci appare come un personaggio a metà tra un Forrest Gump indigeno ed un personaggio degli sketch di Carlo Verdone.
Intendiamoci il prodotto - come amo dire - ha dei garanti dello spettatore di tutto rispetto: un autore come Carlo Lucarelli non si trova al Market di Kabir Bedi, e la perizia nelle immagini, quasi fumettistiche, dei Manetti abbisognerebbe di una mostra o di un convegno per esperti.
Ma il faccione di Gianpaolo Morelli Don Chisciotte non riconosciuto della polizia italiana ha i tratti della vera commedia all'italiana. Quelle battute da Scuola elementare che fa nell'ultimo episodio che abbiamo visto - "CopKiller" - sono irresistibili nella loro citazione implicita con un "Pierino" anni '70. L'ingenuità - nel senso etimologico del termine - dei testi di "Coliandro" fa molto umanità reale e ci restituisce un Paese, che ancora prima dei social e della rivoluzione antropologica che tutti abbiamo subito, che ci piace senza bisogno dei likes, commenti e condivisioni nell'immendo Bar Sport che è diventata la nostra vita piena di fiction.