Volere è potere. Anche nel calcio? Ecco la domanda delle 100 pistole cui però tutti i tifosi di ciascuna squadra pensano di sapere rispondere. “Certo che sì”. Basta avere un presidente facoltoso e una piazza calorosa e i risultati devono sgorgare spontanei. Se si ha un passato illustre o no. Emblematica è la situazione del Torino, i cui sostenitori sono alle prese con la stagione del disincanto, che era però partita come quella dei sogni.

Se la pagliuzza conta più della trave

Il miglior girone d’andata dell’era Cairo, l’acquisto di un giocatore come Adem Ljajic e il prestito di Joe Hart, insieme all’esplosione di Andrea Belotti e alla voglia di riscatto di Sinisa Mihajlovic sembravano aver creato il mix giusto per riportare il Torino ai fasti antichi.

Non è andata, anzi non sta andando, così e allora apriti cielo. Di insulti, verso la società e pazienza se il piano di tornare in Europa era biennale. Tutte le colpe ricadono sul presidente, lo stesso che era stato osannato pochi mesi prima. Difendere l’operato della proprietà Cairo non è in questo momento l’esercizio più popolare e infatti non è questa l’intenzione. Semmai l’idea è di allargare il cerchio dell’analisi al fatto che laddove Cairo sbaglia o ha sbagliato o sbaglierà non è nell’allestimento dell’attuale rosa. Bensì nella gestione della stessa. E insieme a lui sbaglia l’intero popolo tifoso, troppo sognatore e incollato a un passato che non ritorna.

Quelle ambizioni soffocanti

Invocare la conferma di Belotti, Hart e l’acquisto di altri 5 campioni da 40 milioni l’uno solo nel nome della gloria del Grande Torino significa non voler guardare in faccia la realtà, così come invocare l’esempio dell’era Pianelli, che neppure pensò a cedere Graziani e Pulici, raccogliendo un dividendo chiamato scudetto.

Si chiamano “altre ere”, quelle del calcio non travolto dall’ondata dei diritti televisivi. All’epoca e fino a 10 anni fa la Juventus poteva perdere uno scudetto a Perugia (e il Toro lo sa bene…), oggi non sarebbe più possibile. All’epoca ad agosto non era possibile snocciolare in ordine sparso, ma non troppo, le prime 6-7 della classifica.

Oggi non è solo possibile, ma molto facile. Con il proprio fatturato e il proprio bacino d’utenza al Toro non può essere chiesto di fare il passo più lungo della gamba, e tifosi che hanno conosciuto l’onta del fallimento dovrebbero saperlo. Rassegnarsi a tale idea è difficile, così come accettare il fatto che il calcio, fabbrica dei sogni, non possa regalarne oggi alle squadre di fascia media.

Ma è necessario, perché soffocare di ambizioni una squadra che sta comandando la classifica delle formazioni della propria fascia significa solo farsi del male.

L’esempio virtuoso

Sì, comandando la classifica, perché dato per assodato che salvo eccezioni le 7 grandi arriveranno sempre prima per i motivi suddetti, anche l’Atalanta va considerata hors categorie. Perché a Bergamo c’è una cultura calcistica e una tradizione del vivaio che al Toro oggi manca, evidenziata dalla scelta dell’allenatore e dalla capacità di valorizzare i giovani del proprio vivaio. Caldara, Conti e Gagliardini sono futuri campioni che assicurano le fortune odierne sul campo e anche quelle di domani dal punto di vista degli introiti.

Viceversa, i campioni d’Italia Primavera 2015 del Torino sono quasi tutti dispersi tra B e Lega Pro senza giocare e pure altri talenti, da Parigini in giù, faticano a decollare. Per questo compiere qualche sacrificio è non solo indispensabile, ma indispensabile: così se l’arrivo di Hart non è certo stato lodevole sul piano patrimoniale (nessun incasso per la società e anzi un favore gratuito al City per la valorizzazione di un patrimonio che stava decadendo) la cessione di Belotti, clausola o non clausola, significherà fare il bene del Torino, a patto di sapere come reinvestire il malloppo. Cento milioni o anche ottanta possono bastare per un budget discretamente ambizioso per almeno un triennio. Incasso chiama incasso. Ma sogno non chiama sogno.