Recenti fatti di cronaca pongono l’Italia di fronte alla necessità di legiferare sulla libertà di morire, qualora gravissime ed insanabili patologie compromettano irrimediabilmente le funzioni vitali.

Lo scorso 13 febbraio 2017, nel comune di Montebelluna (Tv), vi era stato il caso Dino Bettamin, malato terminale di Sla. Decesso avvenuto 9 giorni dopo che era stata accolta la richiesta di sedazione profonda e di sospensione della nutrizione artificiale.

Questo 27 febbraio 2017, alle 11.40, la morte di Dj Fabo in Svizzera, alla disperata ricerca dell’eutanasia, non permessa in Italia.

Si tratta di un uomo quarantenne, cieco e tetraplegico, a seguito di un incidente stradale. Egli aveva fatto appello alle Istituzioni italiane, con un video al Presidente della Repubblica, perché anche in Italia venisse regolamentata l’eutanasia.

La sua richiesta non accolta lo ha costretto a recarsi in Svizzera, dove il suicidio assistito è consentito, ad un prezzo esorbitante. È stato accompagnato da un membro dell’associazione Luca Coscioni della quale faceva parte. Si tratta di Marco Cappato, il quale in Italia rischierebbe fino a 12 anni di carcere, per il reato di “aiuto al suicidio”.

Altro caso famoso, era stato nel lontano 2007, quello di Giovanni Nuvoli. Un malato di sclerosi laterale amiotrofica che a Sassari aveva richiesto, invano, l’eutanasia e si era spento dopo uno sciopero della fame e della sete, a seguito del rifiuto di staccargli il respiratore.

Tra etica e perbenismo, insensibilità, indolenza ed egoismo

L’Italia è uno Stato laico, ma con una forma mentis fondamentalmente cattolica, ad inibire determinati estremismi. Fra questi il più drammatico riguarda l’impossibilità di un individuo di decretare liberamente sulla propria vita o morte. Si tratta di argomenti estremamente delicati, sui quali, il non soffermarsi finché si ha la fortuna di poterlo fare, si rivela, il più delle volte, una scelta di comodo.

Certamente, il diritto alla vita è sacrosanto, ma bisognerebbe anche chiedersi ‒ al di là di ogni credo ed ideologia, con una sana dose di sensibilità ed immedesimazione ‒ che vita sia mai quella di un malato terminale, del tutto impossibilitato nelle sue funzioni vitali. E se determinare la fine di quest’ultima non compete ad un altro uomo, arrogarsi la pretesa di costringerlo a soffrire invano e contro la sua volontà è un grande atto di presunzione.

Denota, inoltre, una grave mancanza di sensibilità, e al contrario il persistere di egoismo ed indolenza, pur di sollevarsi da ogni responsabilità. Non si tratta di autorizzare l’omicidio, quanto, invece, al di là di ogni etica e perbenismo, di aver rispetto del malato in quanto uomo e compassione del suo dolore. Lo Stato non può permettersi il lusso di essere assente, ignorando un’esigenza tanto forte ed importante, scegliendo di non scegliere, in quanto ciò equivale a non tutelare una categoria che ne è parte integrante.

In Italia anche morire diventa un lusso

Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. È il caso di Dj Fabo, e di quanti malati terminali ne hanno avuto la possibilità economica- perché i costi sono, purtroppo, ingenti.

La soluzione è fuggire all’estero, dove l’eutanasia è consentita. Sembra l’unico modo di aggirare un problema che lo Stato italiano vuole ignorare, non avendo alcuna intenzione di risolvere. La soluzione ha, però, gravi conseguenze ai danni di Marco Cappato, che una volta tornato in Italia corre il rischio di essere arrestato, per aver contribuito a realizzare l’ultimo desiderio della vittima: sollevarla dal suo dolore. In Italia ciò è reato.

Una posizione imbarazzante, per uno Stato che dovrebbe essere laico e tutelare i suoi cittadini. In Italia non solo non si può vivere, ma neanche morire! Occorrerebbe affrontare il problema con grande serietà e legiferare per lo meno sulla possibilità di scelta deliberata del singolo individuo e sulla necessità del testamento biologico.