La traduzione della più conosciuta tra le preghiere cristiane, il "Padre Nostro", andrebbe rivisitata. Hanno suscitato un ampio dibattito le parole pronunciate da Papa Francesco durante la trasmissione "Padre Nostro" condotta da don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, in onda per l'emittente televisiva Tv2000. Lo scorso 6 dicembre, a proposito del noto passo della preghiera recitante "e non ci indurre in tentazione", Bergoglio si è così espresso: "Questa non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice 'non mi lasci cadere nella tentazione'.
Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo. Un padre aiuta ad alzarsi subito - e ha aggiunto - Quello che ti induce in tentazione è Satana. Quello è l'ufficio di Satana".
Le parole del Santo Padre sono perfettamente in linea con l'atteggiamento fresco, per molti aspetti innovativo (perlomeno in sede morale), che sta caratterizzando questo pontificato. Dal momento che le traduzioni liturgiche sono affidate alle Conferenze episcopali, ora la questione potrebbe essere esaminata dalla CEI, in attesa di un'eventuale approvazione da parte della Santa Sede. L'introduzione in sede liturgica di una nuova traduzione di una preghiera così diffusa e radicata nella sua attuale versione potrebbe, però, rivelarsi un'operazione assai complessa e delicata.
Seguiremo con sicuro interesse i futuri risvolti della vicenda. Ma c'è una questione ancor più grande che le parole del Papa sembrano risvegliare: la lunga storia degli errori nelle trascrizioni e nelle traduzioni in sede scritturale.
Nel mondo antico - com'è ovvio - l'unico modo per riprodurre un libro era la trascrizione manuale: un processo lungo, lento e minuzioso, dal quale tutta la cultura occidentale ha potuto cogliere benefici inestimabili.
Ma ciò non senza inconvenienti. Il lavoro degli scribi comportava inevitabilmente degli errori, spesso dovuti a distrazione e negligenza, altrettanto spesso addebitabili ad atti volontari. A tale fenomeno non si è certo sottratta l'enorme mole di trascrizioni bibliche. È proprio tale questione che cercheremo di analizzare di seguito.
Per farlo, utilizzeremo come linea guida le preziose informazioni forniteci da un eminente storico del Nuovo Testamento, del protocristianesimo e della vita di Gesù: Bart D. Ehrman. In un suo celebre saggio, "Gesù non l'ha mai detto", Ehrman affronta con estrema chiarezza il dibattito attorno a quelli che lui denota come i "millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella traduzione dei Vangeli".
Problematiche delle origini
Nei testi protocristiani disponiamo di numerosi riferimenti alle pratiche di copiatura. Un caso emblematico ci viene fornito da un testo popolare - estremamente lungo - dell'inizio del II secolo, denominato come "Il pastore" di Erma. Nel libro, un profeta cristiano di nome Erma riceve diverse rivelazioni riguardanti eventi prossimi e futuri relativi alla vita dei cristiani dell'epoca.
Proprio verso l'inizio del testo, Erma ha la visione di una donna anziana, allegoria della Chiesa cristiana, che legge un libretto ad alta voce. La donna chiede dunque ad Erma se può annunciare ai suoi correligionari ciò che ha udito. Il pastore, a sua volta, chiede di poter fare una copia del libro, impossibilitato a ricordarlo per intero. Dopo averlo ricevuto, racconta: "Lo presi e mi allontanai verso un'altra parte del campo, dove copiai il tutto, lettera per lettera, perché non riuscivo a distinguere tra le sillabe. E poi, quando ebbi finito con le lettere del libro, d'un tratto esso mi fu tolto di mano, ma non vidi da chi (Il Pastore, 5,4). Quando Erma afferma di "non riuscire a distinguere tra le sillabe", intende, con ogni probabilità, di non essere pratico nella lettura, di non essere istruito a leggere in scioltezza come uno scriba di professione.
Inoltre uno dei problemi degli antichi scritti cristiani redatti in greco è costituito dall'assoluta assenza di segni d'interpunzione, di alternanza tra caratteri minuscoli e maiuscoli e, soprattutto, dall'assenza di spazi per separare le parole (scriptio continua). Erma non era in grado di leggere scorrevolmente, ma poteva cimentarsi nella trascrizione sapendo riconoscere le lettere. È ovvio, però, che non conoscere il contenuto di ciò che si copia moltiplica la possibilità di commettere errori.
L'esempio offertoci da questo brano ben delinea quella che era, con ogni probabilità, la situazione nelle pratiche di copiatura nella Chiesa delle origini. A quel tempo, solo pochi membri scelti vi svolgevano la funzione di scribi, ossia coloro che avevano ricevuto una buona forma di istruzione da parte della congregazione cristiana e che, grazie all'acquisita cultura, avevano la voglia e la capacità di eseguire delle copie che venivano poi lette all'intera comunità.
Non si trattava, dunque, almeno nei primi tre secoli iniziali della Chiesa, di scribi di professione: da ciò è facilmente desumibile come, specie nelle primissime copie delle Sacre Scritture, frequenti errori di trascrizione venissero commessi. A tal proposito Origene, Padre della Chiesa del III secolo, così espresse la sua lamentela: "Le differenze fra i manoscritti sono diventate grandi, per la negligenza di alcuni copisti o per la perversa audacia di altri; dimenticano di controllare ciò che hanno trascritto, oppure, mentre lo controllano, effettuano aggiunte o cancellazioni a loro piacimento".
Quando la Chiesa cominciò ad avvalersi di scribi professionisti? Fondamentale è, in questo senso, la conversione nel 312 d.C.
dell'imperatore Costantino. Il cristianesimo, da religione minoritaria e perseguitata, si elevò a religione imperiale. Ne derivò un gran numero di conversioni che coinvolsero una mole sempre crescente di persone dotate di un alto grado di istruzione e di buona preparazione; persone decisamente più idonee a copiare i testi della tradizione. Proprio alla prima parte del IV secolo risalgono, infatti, i primi scriptoria cristiani, ossia centri per la copiatura professionale dei manoscritti, nonché fonti di sontuose copie della Bibbia commissionate dall'imperatore in persona.
Modifiche non intenzionali e modifiche intenzionali
È quasi impossibile quantificare l'esatto numero delle modifiche apportate alle innumerevoli trascrizioni bibliche.
Possiamo, di contro, individuare alcune tipologie di manipolazioni e alterazioni dei testi. Ci concentreremo anzitutto su una prima antitetica coppia di modifiche: quelle non intenzionali e quelle intenzionali.
I primi involontari errori di scrittura furono senza dubbio aggravati dalla scriptio continua dei manoscritti greci, senza alcuna punteggiatura né spazi tra le parole. Ciò ha spesso comportato l'interscambio o la confusione tra lessemi somiglianti. Un esempio: nella Prima lettera ai Corinzi (5,8) Paolo invoca i suoi lettori a non celebrare la Pasqua "con il lievito vecchio, né con il lievito della malizia e della perversità". Quest'ultima parola in greco si scrive "poneras", molto somigliante al termine "porneias", indicante l'immoralità sessuale.
Non stupisce, allora, che in alcuni manoscritti, Paolo non ammonisca contro il male in generale, ma contro la particolare depravazione sessuale. Questo tipo di errore di ortografia era reso ancora più probabile dall'uso di abbreviazioni per indicare parole particolarmente frequenti, come congiunzioni o "nomina sacra" (Dio, Cristo, Signore etc.). Così, ad esempio, nella Lettera ai Romani 12,11, Paolo invita i suoi lettori a "servire il Signore". Quest'ultimo termine, in greco "Kurios", fu da alcuni scribi confuso con l'abbreviazione utilizzata per il termine "Kairos", che vuol dite "tempo". In quei manoscritti, dunque, Paolo esorta i suoi lettori a "servire il tempo".
Un altro tipo di errore diffuso nei manoscritti greci si verificava quando due righe del testo che veniva copiato terminavano con le stesse lettere o con le stesse parole.
Poteva, ad esempio, capitare che uno scriba copiasse la prima riga del testo e poi, tornato con lo sguardo sulla pagina, riprendesse dalle stesse parole della riga successiva, perpetuando l'errore per il resto della copiatura. "Questo tipo di errore - ci dice Ehrman nel sovracitato testo con qualche tecnicismo - viene chiamato 'parablepsis' (guardare a fianco), causato da un omeoteleuto (stesse desinenze)".
Le modifiche intenzionali sono invece più complesse: in quanto intenzionali tendono, infatti, ad avere un senso, variamente indirizzato. Talvolta i copisti modificavano il testo poiché pensavano contenesse un errore di fatto. È il caso di Marco, che introduce il suo Vangelo affermando: "Come è scritto nel profeta Isaia: 'Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te [...] raddrizzate i suoi sentieri'".
La citazione, però, non proviene affatto da Isaia. Si presenta piuttosto come una mescolanza tra un passo di Esodo 23,20 con uno di Malachia 3,1. Gli scribi eliminarono l'errata attribuzione, modificando il testo con un più generico: "Come sta scritto nei profeti...".
Talvolta i cambiamenti apportati nelle trascrizioni avevano ragioni genuinamente teologiche. I cristiani delle origini erano assolutamente convinti della novità della loro fede, anche rispetto allo stesso giudaismo. In via esemplare, creò un certo sconcerto la frase di Gesù secondo cui "Il vecchio è migliore" (Lc 5,39), frase tempestivamente espunta da alcuni scribi. Altre volte, invece, le modifiche erano effettuate in una prospettiva liturgica.
Ad esempio, i demoni che in Marco 9,29 Gesù dice di poter scacciare solo con la preghiera divengono, secondo le usanze del tempo, allontanabili solo "con la preghiera ed il digiuno". Più in generale - e questo riguarda anche le due versioni del Padre Nostro, presenti in Luca e Matteo - vi è una costante tendenza degli scribi ad armonizzare tra di loro i diversi passi evangelici, anche ricorrendo a tradizioni orali sulla figura di Gesù.
Adozionisti, docetisti, separazionisti
Numerose variazioni testuali si devono, infine, alla concezione che i diversi gruppi cristiani avevano di Cristo. Per gli adozionisti Gesù non era divino, bensì un essere del tutto umano, che Dio aveva adottato come figlio al momento del battesimo, in quanto estremamente retto nell'adempimento della legge ebraica. Per i docetisti, la natura di Gesù era invece solo e soltanto divina: la sua umanità costituiva pura apparenza. I separazionisti distinguono piuttosto l'uomo Gesù dal Cristo divino: quest'ultimo avrebbe abitato il corpo del primo.
A ciascuna di queste concezioni corrispondono tentativi di ostacolo da parte dei copisti. In sede antiadozionista si tenta, ad esempio, di eclissare la figura di Giuseppe, epurando ogni appellativo facente riferimento al suo ruolo di genitore; gli antidocetisti enfatizzano la fisicità di Cristo, il suo corpo ed il suo sangue ("Questo è il mio corpo, che è dato a voi"), il cui sacrificio è essenziale alla salvezza; le modifiche antiseparazioniste insistono, invece, sulla compresenza dell'elemento divino e di quello umano in Gesù durante la crocifissione.
Lo spirito sempre attivo di Papa Francesco ha saputo, a nostro parere, riattualizzare una questione che dovrebbe rimanere costantemente viva nel dibattito culturale occidentale: quella di una più profonda analisi del messaggio scritturale che, al di là di ogni appartenenza di fede, si staglia come una imponente opera culturale umana. È il segno di una tradizione che non ci determina in via non problematica, ma che sempre si riattiva nella quotidianità dei nostri gesti. Da oltre un millennio.