È ormai arcinota la querelle scaturita dalle parole rilasciate da Attilio Fontana, candidato leghista alla regione Lombardia, a Radio Padania. Rispondendo ad un ascoltatore circa il tema dell'immigrazione, Fontana ha affermato che l'Italia non può "accettare tutti", giacché "tutti non ci stiamo, quindi dobbiamo fare delle scelte. Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare ad esistere o deve essere cancellata. Qui non è una questione di essere xenofobi o razzisti, ma di essere logici o razionali".

E conclude: "Non possiamo accettarli tutti, perché se dovessimo farlo non saremmo più noi come realtà sociale, come realtà etnica". La reazione dell'opinione pubblica e delle opposte forze politiche hanno indirizzato Fontana verso le classiche e farraginose chiarificazioni di rito:"È stato un lapsus, un errore espressivo. Intendevo dire che dobbiamo riorganizzare un'accoglienza diversa, che rispetti la nostra storia e la nostra società". Per quanto riguarda il richiamo al concetto di "razza", il candidato leghista glissa goffamente:"Rispetto a quella frase, ascoltando il mio discorso per intero si capiva cosa intendevo dire".

Ovviamente, le parole di Attilio Fontana non possono che essere condannabili.

E lo sono non in base al superficiale senso del "politicamente corretto", né in base ad un facile richiamo a drammatici eventi storici. Lo sono poiché indice dell'arretratezza culturale nella discussione Politica di questo Paese, incapace di smuoversi da concetti e categorie superate da anni, sia sul piano sociologico sia su quello scientifico.

Vogliamo qui soffermarci un momento sul tema della "razza", maldestramente citato da Fontana nella sua argomentazione. Nel farlo, ci rifaremo a quanto riportato sulle splendide pagine de "La guerra del mondo", un mirabile libro dello storico scozzese Niall Ferguson.

L'inesistenza delle 'razze'

Hermann Göring, il braccio destro di Adolf Hitler, definì il secondo conflitto mondiale come la "grande guerra delle razze", e così fu vissuta da molti dei suoi contemporanei.

Al giorno d'oggi, come Attilio Fontana e tanti altri sembrano ignorare, la genetica moderna ha dimostrato quanto gli esseri umani siano straordinariamente simili. Nel nostro DNA c'è scritto che discendiamo senza ombra di dubbio da un'unica specie, le cui origini vanno ricercate in Africa, tra i 100.000 e i 200.000 anni fa, e che iniziò a diffondersi nel resto dei continenti soltanto 60.000 anni or sono. Le differenze solitamente associate all'identità razziale sono legate a fattori superficiali, quali la pigmentazione, il tipo di capelli o i tratti somatici, ma sotto la pelle siamo tutti uguali ed abbiamo un'origine comune. Tutte le sequenze del DNA mitocondriale umano oggi esistenti derivano, infatti, dal DNA di una donna africana, così come tutti i cromosomi Y risalgono a quello di un solo uomo.

È stato calcolato, in effetti, che tutti i DNA degli esseri umani viventi discendono da appena 86.000 individui.

La dispersione geografica portò gli esseri umani a dividersi in gruppi, che con il tempo si sono differenziati tra loro per determinati tratti fisici. Ciononostante, dal nostro patrimonio genetico si evince che le diverse barriere geografiche non hanno impedito a quelle che comunemente identifichiamo come le diverse "razze" di ibridarsi dai tempi più antichi. La maggior parte degli europei discende, infatti, da popoli coltivatori del Medio Oriente che migrarono verso nord e ovest, unendosi di volta in volta alle popolazioni nomadi del luogo. Le colonizzazioni del Nuovo mondo dalla fine del quindicesimo secolo in poi ha fatto sì che, come osservato da chi studia il genoma umano oggi, il DNA di molti afroamericani può essere ricondotto a geni europei circa nel 25 per cento dei casi.

Allo stesso modo, il DNA della popolazione giapponese attuale rivela un antico incrocio tra i primi coloni provenienti dalla Corea e le popolazioni indigene Jomon. In questo senso, è ben nota la scoperta del biologo evoluzionista Richard Leowontin, che calcolò che circa l'85 per cento delle variazioni genetiche umane avviene a livello individuale e soltanto il 6 per cento coinvolge intere "razze". Le varianti dei geni che determinano il colore della pelle, il tipo dei capelli e i tratti somatici interessano una parte insignificante dei miliardi di nucleotidi contenuti nel DNA di un individuo. Secondo molti biologi questo significa, a rigor di termini, che le razze umane non esistono.

Altri preferiscono affermare che stanno per scomparire.

A dimostrazione di ciò, v'è il sempre crescente numero di matrimoni misti a partire dagl'anni Sessanta: negli Sati Uniti, tra il 1990 e il 2000, il numero delle coppie miste è quadruplicato, arrivando ad un totale di circa un milione e cinquecentomila. Tuttavia, gli uomini del ventesimo secolo hanno di frequente pensato e agito come se le "razze", diverse solo nei tratti somatici, fossero anche delle vere e proprie "specie" separate. E questi sembrano anche essere i toni dello sciagurato intervento di Fontana che mescola, tra l'altro, il già inappropriato concetto di razza con quello di etnia. Mentre la cosiddetta "razza" dipende da caratteristiche fisiche ereditarie, trasmesse di padre in figlio tramite il DNA, l' "etnicità" è una combinazione di lingua, tradizioni, rituali tramandati in famiglia, piuttosto che a scuola o dalla religione.

Una popolazione di una certa area geografica può dunque essere indistinguibile a livello biologico ma differenziata in termini culturali. La storia ci insegna come tale convivenza sia stata troppo spesso complessa. Entrambi i gruppi potrebbero vivere pacificamente o in cordiale indifferenza. Oppure, come più spesso avvenuto, uno dei due gruppi può costringere l'altro ad una forma di segregazione come quella in un ghetto, piuttosto che espellerlo e fargli la guerra. Od operare un genocidio.

Sono queste circostanze storiche che Fontana sembra oltremodo ignorare. E non parliamo dell' espulsione degli ebrei dai domini spagnoli nel lontano quindicesimo secolo, ma delle più recenti e feroci violenze razziali a sfondo sessuale del 1992, quando le forze armate serbe utilizzarono lo stupro sistematico contro le donne bosniache musulmane allo scopo di costringerle a dare alla luce dei "piccoli cetnici".

Le parole del candidato leghista richiamano (involontariamente) piuttosto le pseudoscienze di inizio '900 come il "darwinismo sociale", dove l'incrocio tra "razze" era visto come causa di degenerazione fisica e mentale. Chissà quando il discorso socio-politico italiano ed europeo potrà entrare in una fase di moderna consapevolezza culturale e scientifica.

La difesa di Salvini

Matteo Salvini è corso in difesa di Fontana osservando che "È incredibile come in Italia si riesca a parlare di un sostantivo e di un aggettivo e non del problema: la nostra cultura rischia di scomparire". Ma è proprio l'assenza di una cultura ragionata a permettere che, nel 2018, si parli ancora di distinzione razziale. La nostra cultura è, d'altronde, anche quella che contempla Sant'Agostino nato Tagaste, in Numidia (Nordafrica) e quella di almeno tre papi africani: papa Vittore I, papa Milziade e papa Gelasio I.

Tutte queste sfaccettature, che non sono certo capricci lessicali, sembrano sfuggire all'ambiente leghista (e non solo). Si potrebbero rammentare a Salvini le parole riportate in un passo di "Ricordi e riflessioni" di Ernst Fischer: "Lei non può capire - diceva Otto Beuer - perché dietro di Lei nessuno ha mai mormorato la parola "porco ebreo".