La guerra civile siriana, (iniziata nel 2011 sulla scia della cosiddetta “Primavera Araba”), sembrava essersi esaurita con l’eliminazione delle ultime roccaforti terroristiche dello Stato Islamico e dei ribelli (2017). La Russia di Putin e il governo siriano del presidente Bashar al Assad hanno intrapreso con successo la spedizione militare nei confronti delle ultime sacche di resistenza, ormai riconquistate dall’esercito governativo siriano. L’unica regione ancora ostile è quella di Idlib, città situata nel territorio nord-occidentale della Siria.
Soltanto pochi giorni fa, è avvenuto un conflitto nei cieli del centro abitato ancora in mano alle forze ribelli e islamiste, guidate dall’organizzazione Hayat al-Tahrir al-Sham, una derivazione di Al Nusra, gruppo che ha supportato il Califfato nelle operazioni contro il governo di Assad. L’aviazione russa ha sferrato almeno 68 attacchi sulla città. Ad aggravare la situazione e a minare il precario equilibrio politico è stato il bombardamento improvviso della coalizione USA nei confronti dell’esercito governativo siriano, provocando la morte di 100 soldati fra le fila di Assad nella regione di Dayr Az Zhor (Est della Siria), dove Siria e Russia tentavano di sottrarre un pozzo petrolifero ancora nelle mani dei ribelli.
La giustificazione americana dell’attacco è stata la seguente: si sarebbe trattato di una risposta militare agli attacchi lealisti nei confronti delle forze “democratiche” e ribelli siriane, ovvero, ciò che resta dell’ Esercito Siriano Libero, compagine ostile ad Assad. Gli Usa dimenticano (o forse ignorano volontariamente) il fatto che il democratico esercito siriano si sia schierato, in un primo momento, con le forze terroristiche di Al Nusra, organizzazione fondamentalista che ha successivamente aiutato lo Stato Islamico nell’avanzata verso Damasco e Aleppo.
Soltanto successivamente, per questioni di egemonia politica, le mire espansionistiche del Califfato sono entrate in conflitto con il desiderio di uno stato “democratico” e filo-occidentale.
Perché gli Usa sostengono i ribelli?
L’ondata di malcontento generatasi ormai sette anni fa in tutto il Medioriente e Nord Africa ha fatto sì che tutte le organizzazioni religiose e politiche dissidenti deponessero i cosiddetti “dittatori”, fra i quali spiccava Gheddafi, figura osteggiata e, talvolta, apprezzata dagli stessi governi occidentali (fra i quali quello italiano), per il ruolo di contenimento dei flussi migratori verso l’Europa.
Al di là delle prerogative personali di questi leader, talvolta poco inclini all’umanità, vi era una caratteristica dei relativi governi che gli Usa non tolleravano (e non tollerano tutt’ora). I cosiddetti governi “nemici” della democrazia portano avanti una politica di indipendenza energetica del proprio paese, dicendo categoricamente “No” alle compagnie petrolifere estere che desiderano beneficiare delle proprie risorse. Non è un caso che paesi energeticamente indipendenti come l’Iran, la Siria e il Venezuela siano stati oggetto di attacchi mediatici ma soprattutto politici, finanziati e supportati dai nostri governi. Un popolo meno sovrano è facilmente governabile e, di conseguenza, anche le scelte politiche sono facilmente “negoziabili”.
Un governo fedele agli Usa potrà concedere senza troppi problemi le risorse petrolifere, magari a un costo meno elevato. Al contrario, un mandato governativo che promuove l’indipendenza del proprio paese non può non suscitare l’irritazione del mercato energetico. Bashar al Assad è un fermo sostenitore della sovranità economica dello stato siriano, ragion per cui Usa ed Europa trovano non pochi pretesti per frenarne l’operato e ottenere il consenso necessario dai media; si parla, infatti delle ipotesi fumose sulla detenzione di armi chimiche, smentite da fonti occidentali, e delle persecuzioni nei confronti di civili, che il più delle volte sono vittime di guerra, cadute su tutti i fronti. In sintesi, la destabilizzazione del territorio siriano è una situazione vantaggiosa per l’Occidente, dal momento che un paese politicamente stabile si dimostrerà restio alla compravendita del patrimonio energetico presente sul suolo patrio.
Da questo punto di vista, si può dedurre quanto, forze destabilizzanti quali i ribelli e i terroristi, riescano a favorire, direttamente o indirettamente, gli interessi statunitensi ed europei.
Cosa c’è di vero o falso nell’informazione main-stream occidentale?
Come per ogni fonte mediatica con la quale si è soliti confrontarsi, è difficile stabilire un confine fra veridicità e falsità delle informazioni. Tuttavia, per riportare un esempio di “cattiva informazione”, si citerà una notizia eclatante risalente al 21 agosto del 2013. L’episodio ricorda l’attacco chimico avvenuto a Ghuta (Siria), dove nubi di gas sarin furono lanciate sul terreno, provocando la morte di 1700 persone. L’evento, considerato come il più sanguinoso nella storia del conflitto siriano, ha suscitato lo sdegno e l’ira dei media e dell’opinione pubblica occidentale.
Tuttavia, quando l’Onu chiese alle parti in conflitto chi fosse il responsabile, Assad negò di aver compiuto l’atto e la medesima dichiarazione fu annunciata dalla fazione dei ribelli. Il governo Obama, tuttavia, in preda a un certo bellicismo e senza il consenso dell’Onu, dichiarò frettolosamente a tutti i giornali che l’attacco era stato compiuto dal governo siriano. Gli esperti di guerra e accademici del Mit di Boston, tuttavia, dubitarono fortemente delle dichiarazioni della Casa Bianca. Richard Lloyd, ex ispettore ONU per gli armamenti e Theodor Postol, docente di Tecnologia e Sicurezza, hanno dimostrato come la gittata dell’arsenale chimico non potesse essere superiore ai due chilometri.
Presa in considerazione la mappa statunitense delle fazioni in territorio siriano, il missile risultava essere stato lanciato proprio dalle aree controllate dai ribelli jihadisti che combattevano Assad. Il rapporto del Mit fu pubblicato e, secondo i suddetti studiosi, le dichiarazioni errate dell’amministrazione Obama furono un pretesto mediatico e politico per ottenere dal Congresso Usa, l’autorizzazione per procedere al bombardamento del suolo siriano. Il caso fu talmente controverso che l’Onu, nel suo rapporto finale, si limitò a condannare le violenze inferte ai civili, senza tuttavia indicare il responsabile. Se tutto ciò fosse vero, non sarebbe la prima volta, nella storia dell’umanità degli ultimi due secoli, che si intraprenderebbe una strumentalizzazione dell’informazione a scopi di guerra.
Le industrie degli armamenti fremono, mosse dalla sete di guadagno. Nuove guerre generano nuovi profitti.
Tensioni continue e apparenti distensioni. Un nuovo conflitto è alle porte?
Se la minaccia del Califfato risulta essere ormai eliminata, diversamente si potrebbe dire della situazione conflittuale che riguarda le mire nazionalistiche di Israele, del tutto tesa ad attaccare continuamente le postazioni militari iraniane e siriane. Recentissima la notizia dell’attacco israeliano nei confronti di un drone iraniano lanciato dalla Siria. Come contro-risposta, Damasco avrebbe abbattuto un veivolo F-16 di Gerusalemme. La tensione è altissima. Il primo ministro Netanyahu ha convocato una riunione presso il Ministero della Difesa di Tel-Aviv per fare il punto della situazione.
L’esercito israeliano ha colpito 12 obiettivi in Siria, mentre Damasco dichiara che, durante i raid nemici, sono rimasti uccisi tre soldati fedeli ad Assad. Nell’attuale panorama geopolitico, Israele rappresenta la scintilla disinibita di una polveriera pronta a esplodere. Le recenti dichiarazioni di Trump sul desiderio di vedere Gerusalemme capitale dello stato ebraico hanno suscitato l’ira del mondo arabo-palestinese, rischiando di provocare una nuova intifada. Per di più, Tel-Aviv è restia ad accettare la presenza iraniana nel territorio siriano, trovando in ciò un pretesto o un’ipotesi di “minaccia” per poter attaccare Damasco. Ulteriori gesti negativi nei confronti del mondo arabo potrebbero scatenare conseguenze devastanti e l’inizio di un conflitto internazionale.
Il governo Trump, appoggiato dall’industria bellica, sembra incline ad accendere focolai di tensione nelle “zone calde” del Medioriente, mentre l’Europa è sempre più relegata al ruolo di osservatore diffidente nei confronti della nuova politica americana.