La realtà pandemica sta confermando in modo emblematico la persistenza del modello etico-politico hobbesiano, che è un modello fisico e matematico nello stesso tempo (in Hobbes, va ricordato, le scienze umane e morali si fondano appunto sul modello delle scienze fisiche), e che include al suo interno sia l’universalità del giudizio della comunità che l’arbitrio individualistico del singolo (bellum omnium contra omnes). Ragionare, come scriveva già Hobbes valorizzando le funzioni della «ragione naturale», non è altro che «calcolare», addizione e sottrazione(1), ed il fine della scienza resta baconianamente la potenza; così ogni speculazione, ogni teorema deve avere come fine principale un’azione o un lavoro concreto orientato ad incidere prometeicamente nella realtà(2).

Proprio poggiando su queste basi hobbesiane, il bisogno di ordine e disciplina che la pandemia fa emergere come una priorità inderogabile, riporta in primo piano l’efficacia del dispositivo «panottico», il quale si radica nel bisogno sia dell’ordine conoscitivo (è il punto di vista della scienza) che di quello pratico-empirico (misure di contenimento, controllo e distanziamento sociale): «Questo spazio chiuso – scriveva Foucault in Sorvegliare e punire –, tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito tra i vivi, gli ammalati, i morti – tutto ciò costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare»(3).

Tutti abbiamo avuto prova che non è affatto semplice né scontato liberarsi da tale dispositivo disciplinare, rappresentando certamente il culmine del prometeismo capitalistico e della tecnica impiegata per la creazione di un «supercervello sociale», riscuotendo peraltro ampio consenso da più fronti politici anche tra loro opposti, come quelli del capitalismo liberista e del comunismo che include in sé il capitalismo di Stato.

Entro la stessa cornice, non può essere tralasciata anche l’esperienza quotidiana dell’olocausto animale, determinata dal processo di industrializzazione degli allevamenti intensivi, ove si applica, anche in questo caso, il modello panottico e disciplinare. Alla violenza Politica che si riversa su tutto il vivente è pertanto strettamente connessa anche la questione animale.

Ma venendo alla configurazione più marcatamente politica della violenza, di fronte alla quale la democrazia pare trovarsi troppo impreparata, non si può non rilevare che il populismo rappresenta la forma più sofisticata e organizzata della violenza – anche per il solo fatto che essa molto spesso annulla la carica eversiva della contestazione ancorata ai valori della solidarietà – in quanto riporta in primo piano, come è stato giustamente rilevato, la vecchia oscillazione tra individualismo e collettivismo(4), all’interno di una società che ha ormai assunto i tratti di una «società signorile di massa».

Su quest’ultimo punto occorre soffermarsi un attimo prima di chiudere il discorso. L’ossimoro sociologico appena richiamato è stato introdotto di recente nel dibattito non solo strettamente economico, ma soprattutto filosofico-politico ed etico sul futuro della democrazia liberale, dal sociologo Luca Ricolfi, il quale ha riportato all’attenzione della comunità scientifica un dato importante sul quale occorrerà riflettere a lungo: dal momento che nella nostra società opulenta il lavoro è sempre più delegato ad una minoranza di cittadini (stando alle statistiche il numero dei cittadini che non lavorano è maggiore di quelli che lavorano), la maggioranza che non lavora poteva ancora beneficiare (almeno fino allo scoppio della pandemia) di un surplus derivato dal lavoro di pochi, magari passando attraverso i benefici arrecati dalle relazioni familiari.

In questo modo i signori risultavano più numerosi dei produttori effettivi(5), perché molti lavori – in particolare quelli manuali – o restavano del tutto scoperti o venivano occupati da immigrati(6). Al risparmio dei padri e all’abbassamento di livello delle istituzioni educative come pilastri della società signorile di massa va ad aggiungersi adesso un terzo elemento che interessa più da vicino la presente indagine: l’infrastruttura «paraschiavistica» della società(7), organizzata, almeno in Italia, «attraverso la netta suddivisione della popolazione – che un tempo era attiva per buona parte della vita – in una minoranza di lavoratori, spesso iperlavoratori (a causa di straordinari e doppio lavoro), e una maggioranza di non-lavoratori»(8).

Procedendo con l’esame del problema segnalato e documentato da Ricolfi nel suo studio recente, si scopre un dato molto indicativo: l’ingente massa di tempo libero ottenuta a seguito dell’aumento della produttività del lavoro «non è stata usata per innalzare il livello culturale delle persone, la loro sensibilità artistica, la loro capacità di vivere in modo saggio, piacevole o salutare», bensì il maggiore tempo a disposizione è stato impiegato principalmente «per ampliare lo spettro dei consumi»; così, anziché «usare la cultura per riempire il tempo libero», si è preferito usare i consumi compulsivi per riempirlo(9).

Ebbene, questa realtà in cui il tempo libero viene ridotto a consumo di massa continua ad esercitare, anche nel corso della pandemia, una violenza senza precedenti almeno su quella parte – molto minoritaria – della popolazione che, per formazione e storia personali, è abituata ad investirlo con discrezione ancora nella cultura, nello sport e nella convivialità.

Con la minaccia, per giunta, che nel caso di un prolungamento indeterminato dell’attuale stato di pandemia, l’enorme quantità di tempo libero a disposizione di tutti venga piegato, sempre più forzatamente ed attraverso la decisione politica, a forme di lavoro, di consumo e di organizzazione del tempo reificanti, pilotate da casa e ben tracciate dai dispositivi; con il risultato di mettere seriamente a rischio l’altra modalità, certamente più sana ed umana, di investire il tempo, quella appunto mediante la «cultura» e l’«ambiente», intesi entrambi come cura morale di sé che non necessita della mediazione dei dispositivi, richiedendo invece una partecipazione più diretta del soggetto, ad esempio attraverso l’interazione con la natura, la riflessione, l’immaginazione, l’esercizio del pensiero critico.

Insomma, anche in tempi di pandemia, si tratta di opporre resistenza con l’alta cultura alla pervasività di un tempo libero sempre più strumentale, che per essere usufruito dalle masse signorili richiede di essere sempre più «attrezzato»(10), soprattutto da una tecnologia, come quella dei social media, attraverso la quale non si condivide – come indica chiaramente l’etimologia – privandosi di qualcosa a favore di altri, bensì «invadendo» le vite altrui con la propria(11), oppure con la comunicazione politica manipolatoria, esibendo il proprio status per ottenere approvazione e riconoscimento(12).

Alla base di tutti questi meccanismi restano due dati preoccupanti, segnalati bene da Fisher in Realismo capitalista come questione destinata a restare aperta: 1) «Ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile I figli degli uomini»(13); 2) «Un qualche tipo di razionamento sarà in ogni caso inevitabile: il nodo diventa allora se queste limitazioni verranno gestite collettivamente o se verranno imposte con mezzi autoritari quando sarà già troppo tardi»(14).

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Note:

1. vi, p. 101.

2. Cfr. ivi, pp. 154-155.

3. T. Hobbes, Il corpo, in Id., Elementi di filosofia, a cura di A. Negri, UTET, Torino 1972, p. 71.

4. Ivi, p. 74.

5. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 215.

6. M. Iofrida, Per un paradigma del corpo, cit., p. 91.

7. Ivi, p. 100.

8. L. Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 41-42.

9. Ivi, p. 64.

10. Ivi, p. 71.

11. Ivi, p. 90.

12. Ivi, p. 93.

13. Cfr. ivi, p. 97.