La violenza pandemica non ha soltanto trasformato il tempo sociale in un tempo monodimensionale di arresto, ricacciando ciascuno a fare i conti con la propria coscienza nella proprietà privata, ma ha convertito rapidamente lo spazio pubblico in un «non-luogo» fuori dal tempo cronologico. Quasi come per un contrappasso sociale, i non-luoghi definiti fino a poco tempo fa dai grandi centri commerciali affollati si sono svuotati assieme agli spazi di pubblica condivisione ed espressione come le piazze, i cinema, i teatri, i musei, i luoghi di culto.

In che modo si riorganizzeranno tutti questi spazi una volta terminata la pandemia resta una questione aperta e tutta ancora da approfondire nella sua drammaticità e complessità.

Ancora una sfida per la democrazia, non contro la democrazia, valorizzando l’assunto fondamentale che la responsabilità verso altri è parte integrante della definizione stessa della libertà democraticamente intesa, «dal momento che non c’è azione umana che non sia contemporaneamente un “rispondere” a se stessi, agli altri e alla legge»(1).

Ma tornando al nostro problema, per il momento ci è sufficiente rilevare come, dal punto di vista spaziale, con la pandemia l’intera società sia stata inserita improvvisamente all’interno di un’uniforme «zona rossa», disciplinata dal «confine» inteso secondo le due accezioni che ci offre di nuovo la lingua tedesca: tanto secondo la Grenze (confine, limite mobile) che secondo la Schranke (barriera, limite fisso).

Ebbene, la continua e quotidiana interazione tra limite fisso e limite mobile (vale ancora oggi), tra la Grenze e la Schranke, configura un nuovo principio di realtà contraddistinto rigidamente dalla tracciabilità, dal controllo e dal divieto (certamente questi tre termini non sono tra loro sinonimi). Per certi versi si tratta con tutta evidenza di un ritorno al passato, almeno stando ad alcune letture critiche (cfr.

Agamben) – al riguardo occorre comunque tenere presenti le prospettive, tra gli altri, di Kafka, Foucault, Deleuze.

È un dato che la tracciabilità dei tempi e degli spazi annulla l’esperienza del tempo e dello spazio compiuta dal «vivente», in primo luogo perché la vita non è meccanizzabile. Il problema riguarda però un altro dato che pare ormai sempre più emergente, che peraltro è stato evidenziato con chiarezza e precisione in studi molto recenti: la natura, da sostanza, si è trasformata in un limite che la cultura non può sorpassare(2), limite (nelle due accezioni prima ricordate) sottoposto, nella realtà pandemica, al rigido controllo dell’uomo, sulla base del dato che ad avere adesso piena libertà di movimento è un virus.

Eppure, anche in questa circostanza inedita, una volta limitata la pervasività e il prometeismo dell’elemento culturale-umano, siamo ricaduti nell’eccesso opposto, ossia nel materialismo oggettivante e nell’intossicazione tecnologica (che è il suo corollario), proposte come le uniche strade percorribili da «vite nude» (cfr. ancora Agamben) recluse all’interno della proprietà privata. Ma c’è di più. Con la virtualizzazione – tema, quest’ultimo, che peraltro aveva arricchito la retorica sociale a partire dagli anni Sessanta – inizia ad imporsi un nuovo paradigma per la realtà pandemica, di fronte al quale la democrazia liberale pare quasi rimasta in fatale arresto, quasi sconfitta, ossia quello dei corpi reclusi, della natura che ha la meglio sull’uomo, del territorio parcellizzato in zone rosse, del limite in ogni senso, della finitezza foriera di depressione e disperazione sociale, oppure semplicemente di «impotenza riflessiva»(3).

A fronte di questo scenario desolante trova conferma ancora una volta il monito di Nietzsche contenuto nel piccolo saggio sul nichilismo europeo scritto nel giugno 1887 in solitudine nella località svizzera di Lenzerheide, che si conclude con questo interrogativo, suonando quasi come una vera e propria chiamata alle armi: «Quali uomini si riveleranno allora i più forti?», seguito da questa risposta: «I più moderati, quelli che non hanno bisogno di articoli di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare all’uomo con una notevole riduzione del suo valore, senza per questo diventare piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie, e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della loro potenza, e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo»(4).

La nuova rappresentazione dello spazio a misura degli spiriti moderati di cui parla Nietzsche è quella porzione di territorio che noi ricaviamo assecondando l’esigenza di «fare spazio» a piccoli luoghi in cui racchiudere simbolicamente un mondo personale (e dunque più umano), in cui prende forma il tempo intenso della coscienza, quella durata «assolutamente pura» che è «la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando in nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore»(5).

Per contrastare, in questo modo più «personale», la violenza di un mondo sottoposto uniformemente al limite, al divieto, al controllo ed anche alla punizione – al cui interno la dinamica del consenso pilotato di massa riveste un’importanza affatto marginale – occorre pensare a forme di resistenza pacifica vissute attraverso la sottrazione volontaria ad un principio di realtà divenuto ormai uniforme.

Si pone a questo livello l’alternativa tra il dominio e la libertà, tra forme acute di «prometeismo» dispotico e la cultura del rispetto democratico di sé, degli altri e del vivente che sta alla base dell’identità Politica e culturale europea che ormai da troppi fronti molti intendono disconoscere, con ripercussioni distruttive a livello individuale e collettivo. Considerando la violenza spaziale da un’altra angolatura, questa sembra riconfigurarsi rapidamente a partire dalla resistenza del biologico al culturale, da un lato, e dalla tecnologizzazione forzata del corpo, dall’altro(6).

Dal virus in libera circolazione, però con gli esseri umani reclusi e passivi, emerge un paradigma ecologico assai debole e insieme contraddittorio, poiché dimostra chiaramente come i limiti che ci impone la natura non sempre siano compatibili con la salvaguardia della nostra libertà.

Soprattutto in virtù del fatto che l’homo oeconomicus occidentale è assuefatto da secoli ad un’idea e ad una pratica della libertà come dimensione assoluta perdurante all’infinito. L’ecologia come pensiero della finitezza e un’idea di libertà come accettazione del limite e finitezza è tutto ciò che stiamo sperimentando da vicino nel corso della pandemia da coronavirus, e così i termini sovente presentati come assiologicamente positivi da un certo dibattito – limite, staticità, temporalità non lineare, inerzia, passività… – si sono dimostrati come fondamentalmente incompatibili con la natura più profonda dell’essere umano, prestando inoltre il fianco alla strumentalizzazione politica.

La pandemia in atto ci sta dimostrando che l’ecologia non può restare a lungo soltanto un «pensiero della finitezza»(7); anche perché, adesso, la messa in pratica, tanto auspicata dalla teoria, del «lasciar spazio» a tutto ciò che non è umano – come nel caso del virus – si fonda fatalmente sul terrore diffuso e sulla disperazione sociale.

Nel contempo, occorre prendere atto con lucidità che la sottrazione obbligata dell’uomo dalla natura – o meglio dal paesaggio quale risultato storico della interazione tra natura e cultura – ha riportato in primo piano la necessità, l’urgenza di ridefinire un nuovo modello di interazione democratica tra uomo e ambiente, che non sia fondato esclusivamente sul possesso e sullo sfruttamento dello spazio ecologico, ma di scambio equilibrato e di ricettività: «il lavoro del vivente – è stato giustamente osservato sulla scorta della rilettura di Merleau-Ponty – è questa relazione che esso istituisce col mondo, relazione che presuppone sempre un’appartenenza, una passività»(8). Temi ampiamente dibattuti soprattutto dal filosofo Ludwig Klages entro il dibattito epistemologico tra filosofia e psicologia in Germania tra le due guerre(9).

Rimettere dunque al centro il valore «espressivo» delle cose, animate ed inanimate, che ci circondano, significa considerare come decisiva la loro funzione sia in rapporto alle nostre impressioni che alle percezioni: significa dunque rivalutare la nozione di anima come facoltà ricettiva, mettendo in luce appunto come le cose vengono vissute nelle loro componenti visive, dinamiche e affettive(10).

L’ecologia, sulla base di questa consapevolezza, non può esimersi dal mettere in primo piano la «priorità genetica e fenomenologica delle componenti patico-emozionali nel nostro rapporto col mondo», rivalutando un atteggiamento cognitivo e pratico con esso definibile nei termini di un «realismo patico» per cui, da un lato si riconosce alla realtà il suo statuto empirico, al di qua e al di là di ogni prometeismo iper-soggettivista, mentre dall’altro si valorizza il processo per cui, attraverso modalità sensoriali diverse, l’io scopre caratteri comuni agli oggetti di cui fa esperienza nel mondo, i quali generano emozioni figuranti tuttavia come proprietà di tutto quanto è oggetto di osservazione.

Lo spazio ecologico globale acquista in questo caso una valenza trans-soggettiva e trans-culturale, utile soprattutto per risolvere la questione della violenza politica territorialmente situata.

Veniamo adesso, concludendo il ragionamento inevitabilmente in maniera provvisoria, ad analizzare la pratica più sofisticata e meno semplificabile della violenza: quella etico-politica, la quale può essere rappresentata come la sintesi più sofisticata della violenza linguistica, spaziale e temporale.

Leggi la quarta puntata: la democrazia di fronte alla violenza etico-politica

Torna alla seconda puntata: la democrazia di fronte alla violenza temporale

Note:

1. F. Fistetti, Democrazia e diritti degli altri.

Oltre lo Stato-nazione, Palomar, Bari 1992, p. 162.

2. Cfr. M. Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 30 e 35.

3. M. Fisher, Realismo capitalista, cit., p. 58 sg.

4. F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2006, pp. 19-20.

5. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. it. di F. Sossi, Premessa di P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 66.

6. Cfr. di nuovo M. Iofrida, Per un paradigma del corpo, cit., p. 54.

7. Cfr. ivi, p. 55.

8. Ivi, p. 65.

9. Per utili approfondimenti, anche in chiave storica, suggerisco questo studio recente: F. Toccafondi, Mente, mondo e affetti. Filosofia e psicologia in Germania tra le due guerre, Il Mulino, Bologna 2019.

10. Ivi, p. 92.