Il film Shiva Baby, opera prima di Emma Seligman, distribuita dalla casa di produzione Utopia, è stato presentata per la prima volta al South by di Austin per poi essere proiettata al Toronto International Film Festival. La pellicola è recentemente approdata in Europa, l'11 giugno 2021, sulla piattaforma Mubi.

Shiva Baby: la trama

Danielle (Rachel Sennott) sa bene chi è (una ragazza femminista, ebrea, bisessuale, che aspira alla completa emancipazione senza voler pesare sulla famiglia), ma non cosa vuole. Allo Shiva, periodo di lutto di una settimana previsto dalla religione ebraica che segue il rito funebre di una persona cara, si ritrova a fare i conti con i suoi genitori, che disapprovano il suo stile di vita libertino e le sue scelte di carriera, una ex arrabbiata ma ancora innamorata di lei, amici e parenti-serpenti che la subissano di domande scomode ed invadenti con tanto di esternazioni poco delicate sulla sua fisicità, e ciliegina sulla torta, lo sugar daddy con cui aveva consumato un rapporto prima della cerimonia, con moglie (Dianna Agron) e bambina al seguito.

Basterebbe questo cocktail di elementi in un'unica stanza ad innescare nella giovane protagonista un breakdown mentale degno di Jack Nicholson in 'Shining'. In un certo senso la domanda che sorge spontanea allo spettatore è: riuscirà Danielle a dipanare questa matassa apparentemente indistricabile e claustrofobica?

Shiva Baby: la critica

Secondo alcuni critici questa dramedy dal vago sapore "Allen-iano" getti le basi per un nuovo genere cinematografico, che è quello cringe. Il progetto nasce come continuazione dello short che la regista Emma Seligman presentò come tesi di laurea alla New York University Tish School of the Arts, e che aveva visto come protagonista la stessa Rachel Sennott. Il budget a disposizione era limitato, tuttavia non ha rappresentato un ostacolo ad alcune accortezze che costituiscono la cifra stilistica di questo lungometraggio di poco più di un'ora, a cominciare dal casting: gli amanti dei coming of age indipendenti saluteranno calorosamente la scelta di Molly Gordon, la simpatica 'Tripla A' di 'Booksmart', nei panni della deuteragonista Maya.

La musica composta da Ariel Marx, e le riprese, realizzate con una lente anamorfica della Kowa, per volere della direttrice fotografica Maria Rusche, caricano i frame di quella componente ansiogena che accompagna lo spettatore per tutto il film. Per ovviare alla difficoltà di coordinare i movimenti dei personaggi tra le varie stanze durante i take, la regista costruisce un modello in lego della futura (e unica) location.

L'angusto spazio, oltre a ospitare una rosa di maschere diverse fra loro, condensa anche quelle molteplici di Danielle, costrette a coesistere in quel siparietto pirandelliano che è quasi una danza macabra, dove si incontrano e si scontrano l'eterna indecisa che i genitori tentano di indirizzare a una brillante carriera, la mantenuta di Max, l'insensibile che ha spezzato il cuore di Maya, e la studentessa fallita e denutrita che tenta di sfuggire alla curiosità bulimica degli insaziabili astanti.

Il taglio fortemente autobiografico del film permette alla regista di affrontare tematiche care ai giovani d'oggi come la carenza di autostima, l'impressione di valere qualcosa semplicemente donando il proprio corpo, e la paura del futuro, ma anche di mettere al bando pregi e difetti della comunità ebraica in cui è vissuta.