Non accennano a placarsi le polemiche politiche esplose subito dopo il ‘salvataggio’ di Augusto Minzolini dalla decadenza da parlamentare con il voto del Senato del 17 marzo scorso. Nell’occhio del ciclone ci sono soprattutto quei 57 senatori del Partito Democratico che a vario titolo (19 hanno votato contro la decadenza, 14 si sono astenuti e 24 risultavano assenti al momento del voto) hanno contribuito alla mancata applicazione della legge Severino nei confronti dell’ex direttorissimo del Tg1, condannato in via definitiva per peculato. Alcuni di questi erano presenti in parlamento già nel 2013 e votarono convinti per la decadenza di Silvio berlusconi.
Perché nel 2017 hanno cambiato idea? Quelli del M5S li accusano di voto di scambio per sdebitarsi della mancata sfiducia verso il ministro Luca Lotti. Da Ichino a Zanda, passando per il non onorevole Renzi, mettiamo a confronto le loro dichiarazioni.
Luigi Zanda. L’attuale capogruppo Pd a Palazzo Madama rappresenta un caso di scuola del doppiopesismo Dem sulla legge Severino. “Il voto sulla decadenza è un nostro dovere nei confronti della legalità, per il Pd non bisogna fare altro che prendere atto della sentenza della Cassazione”, dichiarava con fierezza Zanda subito dopo la defenestrazione di Berlusconi dal parlamento. Lo stesso Zanda che l’altro giorno, con la faccia di bronzo, ha detto: “Abbiamo lasciato libertà di coscienza.
È offensivo che chi ha votato per Minzolini sia additato come colpevole di voto di scambio dopo Lotti”.
Anche il giuslavorista non certo di sinistra, Pietro Ichino, nel 2013 straparlava di “applicazione della legge Severino contro la corruzione negli organi legislativi e amministrativi” che “contribuisce a ridare al nostro paese almeno in parte, agli occhi della comunità internazionale, una credibilità come Stato di diritto”.
Oggi, stranamente, per Ichino la nostra credibilità non conta più nulla “se, di fronte a un iter processuale anomalo come quello di Minzolini, il parlamento chiudesse gli occhi, tanto varrebbe che la legge prevedesse la decadenza automatica del parlamentare”.
“La legalità deve prevalere sulle ragioni della Politica politicante - sentenziava Massimo Mucchetti nel 2013 - una volta riconosciuto a Berlusconi il diritto alla difesasi voterà” perché “non bisogna usare il diritto politico alla difesa come quarto grado di giudizio”.
Quattro anni dopo, facendo riferimento alla condanna di Minzolini, lo stesso Mucchetti rigira la frittata affermando che “quella sentenza non sta né in cielo né in terra, problemi del genere si risolvono in un processo amministrativo, non penale. Ho abbracciato Minzolini e lo farei anche con altri”.
“Tutte le evidenze spingono nella direzione del sì alla decadenza”, giocava a fare il giudice l’ex veltroniano Giorgio Tonini subito prima di affossare Berlusconi. Oggi il giureconsulto Tonini si scaglia contro la sentenza di appello contro Minzolini giudicata “particolarmente pesante”. Inoltre, “il percorso giudiziario che ha portato alla condanna di Minzolini non è scevro da dubbi di uso politico della giustizia.
Noi ci siamo limitati a riscontrare la presenza di fumus persecutionis”. In questo modo Tonini sdogana il quarto grado di giudizio, valido solo per i parlamentari, evidentemente considerati cittadini ‘più uguali’ degli altri.
Chiudiamo questa parziale carrellata con il non parlamentare Matteo Renzi. “Ricordo che la sentenza è già stata emessa da un tribunale, non dal parlamento”, tuonava l’ex rottamatore contro Berlusconi. Oggi, invece, si limita a dire che “non è stata una mia scelta”. Come se le decine di parlamentari renziani che hanno salvato Minzolini avessero agito a sua insaputa.