Si tratta solo del primo round di una partita ancora lunga, ma l’affermazione di Renzi, e della sua mozione programmatica, nel voto degli iscritti al partito assume già un significato chiaro e non trascurabile. Nonostante la sconfitta cocente al referendum sulla riforma della seconda parte della Costituzione del 4 dicembre scorso, l’abbandono di Palazzo Chigi e della tolda di comando del Nazareno, nonostante il confronto con due avversari di tutto rispetto come il ministro della giustizia Andrea Orlando e il governatore della Puglia Michele Emiliano, la presa renziana sul corpo del Pd rimane salda e non messa in dubbio dai rivolgimenti degli ultimi mesi.

Un verdetto non scontato, almeno non in queste proporzioni, che assegna al ticket Renzi-Martina e alla loro mozione 'Avanti, Insieme' oltre il 65% dei consensi (si votava fino alla mezzanotte di ieri e i risultati non sono ancora definitivi), con Orlando attestato intorno al 25% e Emiliano accreditato di un risultato tra il 5 e l’8%.

L’attesa adesso si concentra nei confronti della seconda e decisiva fase della partita congressuale, quella delle primarie del 30 aprile. Come da statuto e da storia del partito democratico, il leader, infatti, si forgia nel voto dei gazebo e sarà quella l’occasione di trionfo e rilegittimazione completa alla guida dei democrat per Renzi o di recupero e rivincita per i suoi due competitor.

Qualche prima considerazione sul significato di questa prima affermazione si può, però, già trarre.

Senza dubbio, la stella renziana non è più luminosa e incontrastata come dopo il trionfo nel congresso del 2013 (Renzi al 68% e Cuperlo e la sua sinistra interna ridotti ad un esiguo 18%) e durante i suoi primi mesi di governo, ma l’ex presidente del Consiglio appare ancora, agli occhi degli iscritti, la migliore carta da spendere nella vera battaglia politica dei prossimi tempi, quella contro il M5S di Grillo e del leader in pectore Di Maio e contro il blocco di centro-destra in cerca di guida e quadra sulle alleanze.

Con alcuni dei dirigenti di primo piano del partito (dal ministro Finocchiaro a Gianni Cuperlo) schierati con Orlando e il rischio di smottamento nelle regioni del Sud per la presenza del presidente pugliese e difensore delle istanze del Mezzogiorno Emiliano, il rischio di debàcle o quantomeno di vittoria dimezzata per Renzi era dietro l’angolo.

Al contrario, l’uomo di Rignano sull’Arno, con questa affermazione netta nei numeri, ha dimostrato di non essere, almeno per i militanti dei circoli, un corpo estraneo al partito, quasi un usurpatore incompatibile con la storia e lo spirito della sinistra italiana.

Dopo le accuse di eccessiva personalizzazione e verticalizzazione del potere mosse nei confronti della stagione di governo renziana dagli oppositori interni e da molti osservatori esterni, il voto a Orlando o a Emiliano poteva rappresentare un segnale ben preciso in vista di un netto cambio di marcia nella gestione del partito e in prospettiva della costruzione di una proposta alternativa per le prossime elezioni.

Le carte del socialdemocratico e inclusivo Orlando o del movimentista simil-Syriza Emiliano sembravano costituire una sorta di antidoto al leaderismo spiccato del golden-boy fiorentino e alla sua ispirazione liberal-democratica (dopo Clinton e Blair, il riferimento pare adesso quello del centrista francese Macron).

Gli elettori democratici hanno, invece, scelto la linea della continuità rispetto al recente passato (la rottamazione, il ricambio generazionale, la rottura con le tradizionali organizzazioni collaterali della sinistra, il riformismo eccentrico rispetto ai dogmi e alla tradizione post-comunista) e premiato la capacità renziana di parlare a mondi diversi, affidandosi ancora una volta alla sua forte riconoscibilità in un’epoca di politica ipermediatizzata e basata sullo scontro tra leader e personalità, ancor prima che tra organizzazioni partitiche e piattaforme programmatico-culturali.