Alla mezzanotte del 24 ottobre è scaduto il “travel ban”, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti fortemente voluto dal presidente Donald Trump e che per 120 giorni ha vietato l’ingresso negli Usa ai cittadini di Siria, Libia, Iran, Yemen, Ciad, Somalia, Corea del Nord e ai funzionari governativi del Venezuela.

Nel corso di una conference call con i giornalisti accreditati, l’amministrazione Trump ha confermato il termine del veto ma ha contemporaneamente annunciato l’emanazione di nuove norme per i rifugiati provenienti da 11 Paesi: le loro richieste, per i prossimi 90 giorni, subiranno rinvii negli esami per consentire controlli più stringenti.

Non sono stati resi noti i Paesi interessati dal nuovo provvedimento, ma sono stati genericamente definiti “ad alto rischio”.

Viene inoltre imposto un significativo taglio ai possibili ingressi: nel suo ultimo anno di presidenza, Barack Obama aveva autorizzato un tetto per gli arrivi a 110mila ingressi, Trump lo aveva ridotto a 53mila per il 2017 e ora lo ha abbassato sino a un massimo di 45mila rifugiati per il 2018.

L’ordine esecutivo di Trump

Le nuove norme rimpiazzano il precedente travel ban e sono state emanate con un ordine esecutivo del presidente Trump: è prevista una maggior raccolta di dati biografici sugli aspiranti rifugiati, l’esame dei loro post sui social network, delle loro frequentazioni, dei loro luoghi di lavoro nei Paesi d’origine e ogni altro argomento che sarà ritenuto rilevante ai fini delle domande d’asilo presentate.

Per approvare l’accoglienza di ogni singolo rifugiato, gli ufficiali federali dovranno dimostrare che l’ingresso è nell’interesse nazionale. L’ordine esecutivo prevedere anche l’invio di funzionari antifrode nei centri di valutazione delle pratiche presentate dai rifugiati, sempre nell’ambito di un maggior controllo delle domande.

I veti interni alle direttive presidenziali

Donald Trump ha emanato diversi “travel ban” negli ultimi mesi e tutti hanno dovuto affrontare polemiche e ricorsi nelle aule giudiziarie, spesso subendo sconfitte. Il primo provvedimento bloccava in toto gli ingressi di rifugiati, oltre a vietare l’accesso agli Stati Uniti, per qualsiasi ragione, ai cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, tutti Paesi a maggioranza islamica tanto che da subito il provvedimento venne definito “muslim ban”.

Trump trovò subito pareri contrari non solo negli oppositori, ma anche nella magistratura statunitense: prima il giudice federale di Seattle, James Robart, su sollecitazione 18 Stati tra cui Washington, Minnesota, California e New York, aveva sospeso la validità del provvedimento; poi la corte d’appello federale del nono distretto, con sede a San Francisco, aveva confermato la sospensione.

Donald Trump, a questo punto, aveva emanato una nuova versione del provvedimento, più blanda e che escludeva i cittadini iracheni dal divieto d’ingresso, incassando l’approvazione della Corte Suprema che aveva dato l’ok a una sua parziale applicazione in attesa della decisione definitiva. In pratica, il veto all'ingresso era mantenuto per i soli cittadini di Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen che non avevano relazioni con persone o entità negli Stati Uniti.

Anche l’ultima versione del travel ban era stata parzialmente bloccata da un giudice federale delle Hawaii.