Ci sono tre criteri per definire la morte di una persona. La cessazione irreversibile cardiocircolatoria, la cessazione irreversibile respiratoria e la cessazione irreversibile nervosa. La prima porta alla morte clinica, la seconda a quella reale e la terza alla morte legale: dal 1993 (legge 578/93) l’unico criterio incontestabile per accertare la morte è quello nervoso. Deve esserci assenza totale di attività cerebrale, ovvero tutte le funzioni dell’encefalo devono essere terminate.

La locuzione inglese “whole brain death” completa e aggiorna i precedenti criteri diagnostici come l’assenza di polso e di riflessi nervosi automatici perché l’analisi tramite elettroencefalogramma evita di scambiare alcuni gravissimi traumi neurologici per morte effettiva: esistono casi in cui il paziente ha perso le funzioni tronco-encefaliche (che connettono il cervello al corpo) e pertanto costoro possono comunicare soltanto attraverso il movimento delle palpebre.

Ai sensi della legge, una volta diagnosticata la morte, è obbligatorio evitare l’accanimento terapeutico e va data comunicazione alla Direzione Sanitaria.

Quando si può parlare di morte?

Ora sorgono i problemi. Anche se le neuroscienze hanno contribuito a sviluppare questo criterio diagnostico molto preciso e difficilmente opinabile, le recenti scoperte stanno rimettendo in discussione il momento in cui possiamo definire una persona morta. L’elettroencefalogramma, infatti, rileva soltanto l’attività elettrica superficiale, quella dei neuroni presenti nella corteccia frontale, il sottile strato di cervello che abbiamo appena sotto il cranio, dove vengono svolti tutti i processi cognitivi “superiori” che ci rendono umani, come il linguaggio e la capacità di avere rapporti sociali.

Più si scende in profondità più le funzioni diventano “animalesche” e non a caso il grande scienziato Paul MacLean ha chiamato queste zone recondite “cervello rettiliano”. Anche se riuscissimo a costruire uno strumento che sia in grado di rilevare l’attività di ognuno dei cento miliardi di neuroni sarebbe un problema definire la morte: se affermiamo che la morte è il momento in cui anche l’ultimo neurone si spegne, dobbiamo anche considerare che un solo neurone attivo non è in grado di far compiere alcuna attività al soggetto, né tantomeno di dargli consapevolezza d’esistere.

Gli esperimenti

I ricercatori dell’università di Yale sono riusciti a tenere in vita duecento cervelli di maiale per oltre trentasei ore irrorando un liquido simile al sangue e alla stessa temperatura. Gli scopi esplicite di ricerca di questa tecnica, chiamata BrainEx, sono lo studio di tumori e delle connessioni fisiologiche, ma le questioni che solleva sono di ordine ancora maggiore. L’elettrocardiogramma effettuato su questi cervelli indica uno stato di coma e di morte cerebrale, ma le cellule nervose risultano funzionanti e vive, pur non generando attività cosciente.