Si chiama “Mining” delle criptovalute ed è la creazione di nuove monete digitali. Ad oggi sta diventando un problema in termini di costi e consumo di elettricità. A differenza dei veri minatori, che entrano nelle viscere della Terra per estrarre i minerali, gli “estrattori” di Bitcoin, Ethereum, Litecoin, Monero ed affini usano l'hardware per estrarre la loro criptovaluta. Gli apparecchi elettronici utilizzati sono in funzione per 24 ore e 7 giorni su 7, consumando parecchia energia. I Bitcoin vengono infatti creati tramite algoritmi matematici, eseguiti dal processore di un computer o con una scheda grafica: un'attività complessa, ma redditizia, se consideriamo l'alto tasso attuale di cambio della valute elettroniche.

Al punto che sono nate delle aziende dedite al mining, che usano migliaia di macchinari in successione per il calcolo che genera la valuta.

Tanta energia quanta ne consuma la Danimarca

Questa grande potenza di calcolo richiede un alto dispendio energetico, che spesso rende il mining poco fruttuoso per chi lo esegue. La creazione di Bitcoin dell'anno scorso avrebbe utilizzato una quantità di energia pari a quella dello Stato della Danimarca, con una popolazione di soli 5,7 milioni di persone, ma fra pochi anni si stima che potrebbe equiparare il consumo del Bangladesh, che conta 163 milioni di abitanti. In numeri, si è osservato nel un consumo di 31,4 miliardi di chilowatt all'ora, riferito al 2015, per la Danimarca, mentre negli ultimi 4 mesi il mining di Bitcoin ne ha consumati 30,1 miliardi.

Il consumo energetico

Le monete virtuali hanno un impatto forte sull'Ambiente e a dimostrarlo è un recente studio statunitense che ha conteggiato l'energia necessaria alla loro generazione e la conseguente portata delle emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. È la prima volta che uno studio si è dedicato all'impatto ambientale delle valute piuttosto che alla loro affidabilità o al loro valore.

Lo studio, condotto da Max Krause e Thabet Tolaymat, dell'Istituto di Scienze ed Educazione “Oak Ridge” di Cincinnati, è stato pubblicato di recente su “Nature Sustainability”. I ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sulla tecnologia blockchain, cioè sulla rete di diverse unità di calcolo per l'estrazione delle valute.

Hanno evidenziato come la rete, che usa la crittografia evoluta, consumi un'enorme quantitativo di energia, sia per registrare tutte le transazioni mondiali di valuta, sia per la conferma di tutte le operazioni dei miner, cioè gli operatori. Oltre al paragone danese si è visto che la rete planetaria di mining dei Bitcoin ogni anno consuma la stessa energia dell’Irlanda , ovvero quasi 26 terawatt/ora nel 2014 e 22 nel 2018. Esaminando il consumo globale per ogni anno, lo studio ha tratto le sue conclusioni: i costi energetici del mining delle criptovalute sono simili o superiori a quelli delle miniere di metalli ed in futuro potranno soltanto aumentare.

L'impatto ambientale

Lo studio ha reso possibile stimare l'impatto ambientale delle criptomonete calcolando l'anidride carbonica emessa nell'atmosfera.

Non è stato un calcolo semplice dal momento che un dollaro di criptomoneta in Canada comporta un'emissione quattro volte inferiore ad un dollaro cinese, poiché le fonti energetiche usate hanno origini diverse, rinnovabili in Canada e fossili in Cina. Ma una stima media delle emissioni prodotte in India, Australia, Usa, Cina, Canada, Giappone e Corea del Sud, ha calcolato che dal 2016 al giugno 2018 il mining di Bitcoin ha sviluppato da 3 a 13 milioni di tonnellate di anidride carbonica. E' tempo che i governi prestino attenzione al consumo energetico ed alle emissioni, già problematiche e vicine al limite estremo di tolleranza del pianeta, senza l'avvento delle criptovalute.