Ogni giorno proviamo a trovare notizie rassicuranti nelle parole di radio e giornali che però non possono fare a meno di parlare di crisi, difficoltà economiche, di vera o presunta ripresa, della disperata disoccupazione che imperversa nel Paese; parlarne è un importante dovere, conoscere è un sacrosanto diritto. Cerchiamo, ognuno nel nostro personale spazio vitale, di avere un'idea chiara di quello che ci circonda, abbiamo (senza nemmeno forse averne presa del tutto coscienza) imparato a soppesare le speranze e le aspettative. Calcoliamo tutto, persino il peso dell'avvenire e la sua possibile consistenza.

Lo facciamo tutti, forse, chi più chi meno. Crediamo di avere quasi tutto sotto controllo, anche i rischi peggiori.

L'abisso

Diciamocelo, pensiamo di avere visto già tutto, di essere preparati ad affrontare ogni cosa che questo mondo impazzito sembra divertirsi a sbatterci addosso ogni giorno. Lo crediamo (con quanta convinzione poco importa) almeno fino a quando non incontriamo l'abisso. Quel tipo di abisso al fianco del quale, in realtà, camminiamo ogni giorno, con quasi nulla di tangibile a separarci da lui e da chi ci vive. Perché sì, qualcuno in quell'abisso ci vive. Ci si sveglia ogni mattina e ci si addormenta ogni sera. Qualcuno in quell'abisso ci passa le notti e, magari, da qualche parte trova anche la forza di farci nascere qualche sogno, in quel sonno.

L'abisso ad esempio, è vedere un cuscino infilato al di là di una ringhiera della Stazione Centrale di Milano, insieme a qualche vestito e forse una coperta. Dei cartoni ripiegati con cura estrema, poco più in là. La persona che abita quella disperazione non c'è, è mattina, si può presumere che lì ci ritorni con l'approssimarsi del buio alla fine della giornata.

Quasi certamente nello stesso momento in cui la maggior parte delle persone si è chiusa alle spalle la porta dell'ufficio o della fabbrica e si dirige verso casa, per cenare, pensando di aver avuto una brutta e difficile giornata.

Ai margini della società

C'è poco da fare, se s'incontra quell'abisso e lo si vede rappresentato in un mucchio di coperte, non si può fare a meno di chiedersi come può essere così semplice "sgusciare fuori" dalla società e da ciò che (almeno in apparenza) la compone.

Viene da chiedersi anche quali passaggi possano portare a quello e, se si ha il coraggio di chiedere, si scopre che non sono poi moltissimi, in fondo. E nemmeno poi così improbabili, in un equilibrio traballante e malsicuro come quello in cui abbiamo imparato a camminare. Chiederselo, fa male. Chiederselo, sconvolge. Vederere la concretezza di quella dimensione parallela, spaventa. Eppure c'è, esiste, ci cammina vicino e calpesta le stesse strade che calpestiamo noi, la differenza sta nelle scarpe e in tutto quello che significano oltre al loro essere semplici calzature.

La differenza sta in quei pochi, sfortunati passaggi che hanno fatto precipitare tutto nell'abisso senza speranza. La differenza sta nell'indifferenza da cui quell'abisso sembra essere avvolto, e nella strana rassegnazione senza rabbia di chi lo vive e se ne accorge.

La ricerca di qualcosa che noi semplicemente non vediamo, negli sguardi profondi come il mare di quelle persone. No, non deve smettere il nostro cuore di spezzarsi di fronte a questi burroni esistenziali. No, non può essere davvero così semplice sgusciare fuori dai tasselli predisposti della società. No, non deve smettere di incrinarsi la voce, di farsi sentire il pianto che nasce da dentro, molto più dentro di quanto potessimo credere nello spazio dell'anima. No, non si deve porre limite al domandarsi come evitare che le persone cadano ai margini della vita. La differenza sta nell'indifferenza. E l'indifferenza è una scelta.