In queste settimane in cui si è tanto prodotto in termini giornalistici su una presunta emergenza di bande criminali di giovani, il mondo dell’informazione non ha fornito alcuno strumento utile di comprensione degli episodi di violenza e rifiuto che caratterizzano l’agire di specifici soggetti giovanili nei grandi agglomerati urbani. Ci si è sostanzialmente limitati a proporre notizie sensazionalistiche, che dimostrano, nei fatti, di non avere alcun fondamento di indagine dei fenomeni sociali di cui parlano. L’evocazione di alcuni immaginari legati a stati di emergenza da cui doversi difendere, riescono ad avere sempre un certo effetto sul sentire comune e anche nel caso delle baby gang, l’uso di un certo tipo di linguaggio non è stato differente.

Come molte altre esperienze “emergenziali” hanno mostrato, il primo tipo di intervento è un contenimento poliziesco-militare, solitamente sostenuto da deroghe normative e/o produzione di nuove norme. L’arrivo nella città di Napoli di altre cento unità di forze di polizia, voluto dal ministro Minniti come immediato provvedimento alle violenze perpetratesi ai danni di alcuni giovani, può essere un recente esempio.

Il tempo che corre tra l’ideazione e la realizzazione di progetti di inclusione è quello necessario per la formazione e l’istituzionalizzazione di nuove figure penali e sociali. E’ così quindi, che i mezzi di informazione aiutano a codificare questi nuovi soggetti che emergono, a evidenziarne condotte e caratteristiche: l’aggressione compiuta in “stile Gomorra”, “metodi terroristici” di azione per l’imprevedibilità dei “colpi”, provenienze dai quartieri periferici e giovane età, sono alcuni elementi del profiling di un ragazzo appartenente a una baby gang.

In questa narrazione, per il sentire comune italiano, la città di Napoli e il napoletano, appartengono a una simbologia largamente utilizzata per codificare soggetti criminali o, in ogni modo, “devianti”. Con ciò non si vuole approdare a una qualche forma di negazionismo della profondità del disagio giovanile napoletano, ma si vogliono interrogare più approfonditamente le condizioni che producono simili episodi.

Non ci vuole molto, in ogni caso, con una ricerca google a imbattersi nell’Analisi dei flussi di utenza dei Servizi della Giustizia Minorile del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia.

Ciò che ci restituiscono le analisi storiche e territoriali dei presi in carico dall’Ufficio dei Servizi Sociali Minorili (USSM), che si occupa di misure alternative alla detenzione, gli ingressi nelle comunità e negli Istituti Penali Minorili (IPM), che si occupano della custodia cautelare, è una mappa della criminalità giovanile che non ci saremmo aspettati.

In primo luogo, non esiste, di fatto, alcuna emergenza: il dato 2016 del numero di minorenni e giovani adulti segnalati all’USSM dall’Autorità Giudiziaria a seguito di notizia di reato, segna un punto di minima nella serie storica 2002-2016; in particolare il 2016 segna un -8,8% di segnalazioni, contestualmente a una diminuzione di eguale entità dei procedimenti penali a carico di autore noto, iscritti alle Procure per i minorenni. Se il dato sulle segnalazioni può essere un indicatore in potenza sui giovani che entreranno nel circuito di misure alternative dell’USSM, il dato dei presi in carico ci fornisce una fotografia di chi è già all’interno. Il Sud si conferma quale maggiore area di intervento dei servizi sociali minorili, ma il quadro è più complesso e diversificato.

Se si guarda, infatti, alle misure detentive, come le Comunità, l’aumento di ingressi sulla media nazionale è da registrarsi per l’incidenza del valore territoriale del Nord, mentre (incredibilmente?) al Sud dal 2012 al 2016 diminuiscono.

Anche il dato sui giovani detenuti negli IPM italiani è aumentato solo leggermente rispetto all’anno precedente a quello di riferimento, ed è sostanzialmente in discesa dal 1991. In definitiva, se al Centro-Nord esiste una concentrazione demografica minore di giovani che scontano la loro pena rispetto al Sud, si può ravvisare una certa tendenza a un maggiore utilizzo di misure cautelari e detentive. Occorrono, infine, due precisazioni: la prima è che nel conteggio delle statistiche prese in esame rientrano anche i cosiddetti giovani adulti, ossia giovani fino a 24 anni che hanno commesso il reato da minorenni e che costituiscono la maggior parte dell'utenza dei servizi sociali e residenziali per minori; la seconda è che per la stragrande maggioranza dei casi, i reati che costringono minori al circuito di giustizia sono quelli contro il patrimonio (rapine e furti) e in misura decisamente minore contro la persona (violenze volontarie) e per stupefacenti (possesso e spaccio).

Più che a spendere tempo a chiamare belve e criminali questi giovani,bisognerebbe andare alla radice delle violenze, scendere sul campo e, prima di tutto, provare ad ascoltare la loro voce.