Il 9 febbraio prossimo si terrà la cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali 2018 di Pyeongchang. Sotto la bandiera di una Corea unita marceranno assieme delegazioni del Nord e del Sud. Nonostante non si tratti della prima occasione di partenariato in campo sportivo tra i due paesi separati dal 38° parallelo, la decisione di una partecipazione congiunta, fortemente voluta dal presidente sudcoreano Moon Jae-in, acquisisce un significato simbolico e politico di diverso spessore.
Olimpiadi invernali 2018: Corea del Nord e del Sud sotto la bandiera di una Corea unita
Il clima di elevata tensione internazionale che ha avuto come protagonisti gli Stati Uniti e la Corea del Nord in un certo senso condiziona lo stesso svolgimento dei giochi, come dimostra l'impossibilità per la delegazione nordcoreana di raggiungere via mare i territori del Sud, a causa delle sanzioni multilaterali a cui è soggetta la Repubblica popolare. C'è, d'altro canto, da registrare un sapiente cambio tattico da parte del presidente Kim Jong-un nello scontro con gli Stati Uniti, che riguarda proprio il rapporto bilaterale con la Repubblica di Corea. Senza dimenticare quanto il Sud sia militarmente dipendente dalla democrazia a stelle e strisce, è indubbio il tentativo di conciliazione con il Nord che il presidente Moon compie da mesi.
E', inoltre, evidente quanto il nuovo scenario economico globale influenzi anche tradizionali relazioni internazionali: secondo l'OEC - Observatory of Economic Complexity - al 2016 il primo partner commerciale sudcoreano, sia come destinazione delle esportazioni che come origine delle importazioni, è la Cina e la stessa repubblica coreana ha registrato, secondo i dati della Banca mondiale un aumento del Pil del 234% negli ultimi vent'anni.
Non sempre, quindi, i cani al guinzaglio vanno dove dice il padrone. Il vero interrogativo è, tuttavia, capire cosa effettivamente spinge la politica sudcoreana a essere sempre più dialogante con il suo rivale storico.
Ciò che è veramente raro leggere dalle nostre parti, è cosa ne pensa la società civile sudcoreana dell'attuale situazione di tensione.
Secondo Tim Shorrock, giornalista di Washington che scrive su Nord e Sud Corea dagli anni Settanta, in un'intervista rilasciata su Jacobin magazine nello scorso agosto, alcune statistiche mostrano che la stragrande maggioranza del popolo sudcoreano, l'80%, sia favorevole a una politica riconciliativa. Lo stesso Moon Jae-in è stato eletto su una piattaforma che aveva come elemento centrale un cambio di rotta nei rapporti con la Corea del Nord. Ciò che sembra preoccupare, quindi, è la condotta militarmente aggressiva degli Stati Uniti, perseguita dalla firma dell'armistizio del 1953 a oggi, più che una presunta "follia" del presidente nordcoreano. La Corea del Sud è, infatti, l'unico paese al mondo in cui, in tempi di guerra, a comandare l'esercito nazionale è un generale straniero, ossia statunitense.
Clima di tensione: la società sudcoreana è preoccupata
La preoccupazione della società sudcoreana contraddistingue anche l'agire dell'establishment governativo, all'interno stretto da richieste di maggiori sforzi per una normalizzazione dei rapporti con il Nord e da una preoccupante disoccupazione giovanile e precarizzazione del lavoro - si stima che il 50% dei lavoratori del paese non ha un impiego a tempo pieno - e all'esterno terrorizzato da un'eventuale azione unilaterale dell'alleato occidentale.
Ciò che sembra essere chiaro è che chi ha veramente il dito sul grilletto della guerra sono gli Stati Uniti e che, nonostante le rappresentazioni grottesche e razziste del presidente nordcoreano, l'utilizzo delle armi nucleari come deterrente è per lui l'unica leva spendibile per sopravvivere.
Le esperienze recenti di Ucraina, Libia e Siria dovrebbero aver già dimostrato, con la tragicità delle condizioni in cui attualmente versano le loro popolazioni, che giusto o sbagliato che sia il governo di un paese, il cambiamento non può fare altro che venire dalla maturazione delle condizioni storiche interne. Tutto il resto ha un nome ben preciso: aggressione militare esterna.