Se prendiamo il numero 8 e lo ruotiamo di circa 90°, otteniamo il simbolo dell' infinito. Infinito, come la figura calcistica di chi ha scritto la storia recente di un club. Non è semplice capire questo in Italia, non perché in Inghilterra ci sia un calcio più bello e spettacolare, ma per le singole storie che si nascondono dietro i petroldollari e un sentimento per quel vecchio pallone rattoppato che ormai difficilmente rotola sui campi di periferia.
Essere un giocatore in Inghilterra significa tanto, soprattutto sulle sponde di un fiume come il Merseyside, che divide non solo una città, ma regala due spaccati di vita.
Un credo calcistico che accomuna e allo stesso tempo divide, una o più storie di una comunità di persone che si è aggrappata spesso al calcio come ancora ancora di salvezza.
Il mito del numero 8, l' addio al calcio di Gerrard
L' addio al calcio di Gerrard è stato mitizzato e demonizzato in queste ore: facile farlo quando non si ha la costanza di veder giocare una squadra più e più volte, ancor più facile farlo per il sentito dire. Ma qua le imprese calcistiche non c'entrano. Esiste un filo rosso che lega il mignolo sinistro di Stevie G. a quello di qualsiasi personaggio che almeno una volta ha varcato i cancelli di Anfield.
Non per la storia personale, non per quello che il numero 8 ha fatto o meno nella sua carriera.
Sembrerà strano mitizzare così un calciatore, ma da quelle parti la vita non è semplice. Ovvio, non siamo alle condizioni di estrema povertà, ma proprio il limbo in cui ricade Liverpool crea una condizione di disagio difficilmente descrivibile. Ultimamente le cose sono cambiate, ma quando vieni accostato ad atti di violenza anche quando non vengono compiuti da te e la tua banda, quando la tua vita fondamentalmente non ti piace e non viene resa facile dal posto in cui nasci, vivi e muori, ti affidi ad uno dei pochi che ce l'ha fatta, che magari è riuscito in cui tu hai fallito.
Steven Gerrard non è un mito da quelle parti per le coppe che ha alzato, ma per come ha interpretato il calcio, per come ha guardato i suoi in una finale che sembrava persa. Perché anche quando la tua vita fa schifo, anche quando hai qualsiasi tipo di divinità contro, nulla è perduto. Puoi ancora sognare e puoi farlo ancora in grande.
A volte l'impossibile diventa realtà, a volte no. Ma non importa, perché anche le lacrime di dolore scivolano via dalle guance.
Se un giorno mio figlio (o mia figlia, perché no) mi chiederà chi fosse Steven Gerrard, probabilmente prenderò un foglio e disegnerò un numero, l'8 ovviamente. Poi lo capovolgerò e gli spiegherò il significato del simbolo infinito. Un collegamento che non puoi dissolvere nel nulla, nemmeno quando scivoli via e distruggi le speranze di vittoria di un popolo intero. Nemmeno quando ti senti morire dentro per quell'errore e vorresti sparire dal mondo, perché sai che hai combinato un casino. Perché se commetti un errore madornale e regali praticamente il titolo ai tuoi avversari e anziché piangere, abbatterti o nelle peggiore delle ipotesi uscire dal campo e non rientrarci mai più, tu consoli un popolo intero, chiedendo silenziosamente scusa, tu non sei un capitano e nemmeno un uomo.
Tu sei infinito. Come quell' otto capovolto.
E se per caso la seconda domanda dovesse essere "Perché non ha pianto il giorno della sua ultima partita ad Anfield?", io cercherò di spiegargli che a volte le emozioni si nascondono, anche in un posto che respira emozioni, che parla solo con un coro grande cinquantamila voci. Perché un vero papà, anche se sta morendo dentro, anche se non riesce ad andare avanti, ha il sacrosanto dovere di prendere in braccio i propri bambini e dire "Hey, va tutto bene. Non camminerete mai soli".
Thank you, Stevie G. You'll never walk alone.