Pino Daniele e Massimo Troisi si conobbero che avevano poco più che vent'anni a Roma, negli studi della Rai: era il 1978. Cominciava così una lunga amicizia, dalla quale nacque un sodalizio professionale fecondo: per Massimo, Pino scrisse la colonna sonora di suoi tre film, Ricomincio da tre (1981), Le vie del Signore sono finite (1987) e Pensavo fosse amore e invece era un calesse (1991), un lungometraggio partito in sordina e poi diventato cult che terminava proprio sulle note di Quando, una delle canzoni italiane più amate di sempre e più radicate nell'immaginario popolare.
I due avevano molte cose in comune: certamente il talento artistico, nella musica il primo, nel Cinema il secondo; il forte accento napoletano che tradiva la comune provenienza da una città che entrambi amavano e odiavano allo stesso tempo e che guardavano con tenerezza e disincanto, detestandone gli aspetti più volgari e macchiettistici, il chiassoso folklore e i triti e tristi luoghi comuni; un carattere sensibile e riservato, non ancora emancipato da una certa timidezza infantile; un sentire malinconico, quell'appucundria a cui Pino ha dedicato nel 1980 una delle sue canzoni più poetiche; il cuore malato. E proprio quel cuore malandato e imprevedibile alla fine li ha traditi entrambi. Massimo Troisi, sofferente da quando era bambino, ma estremamente riluttante a parlare della sua malattia e allergico ai pietismi, se ne è andato nel sonno a 41 anni, una manciata di ore dopo aver concluso le riprese de Il postino, nel giugno del 1994. Pino Daniele, che da 27 anni sapeva di avere una grave malattia alle coronarie, una patologia congenita che condivideva con i cinque fratelli, aveva effettuato quattro angioplastiche ed era consapevole di come la sua vita fosse appesa a un filo, continuamente esposto al pericolo di spezzarsi, come, infine, è accaduto, nella tarda serata del 4 gennaio. Nonostante ciò, fino all'ultimo, ha vissuto intensamente, animato dalla passione impulsiva, sanguigna e profonda per la musica, quel blues che lo faceva sentire "nero a metà" e lo aveva portato ad affrancarsi dalla cultura melodica napoletana (che rinnovò potentemente) per immergersi nella tradizione jazzistica e mescolarsi con le sonorità della storia musicale americana. "Mi considero un uomo fortunato", diceva, "perché vivo come voglio".