Una gabbia di un chilometro quadrato che accoglie dalle 90mila alle 120mila persone; piani su piani che si aggiungono alle case, già instabili, sormontate da un vasto reticolo di cavi elettrici. Il campo palestinese di Ein Al Hilweh, nel distretto di Sidone, città a sud di Beirut, è un fazzoletto di terra abitato da palestinesi, siriani, palestinesi siriani, ma anche libanesi, in condizioni economiche precarie. Una zona off limits, circondata da posti di blocco e filo spinato, dove l’esercito libanese non può mettere piede. A dettare legge, in questa sorta di “città stato”, rigidamente suddivisa, ci pensano le non meno di dieci fazioni in lotta fra loro presenti sul territorio: uomini di Fatah, miliziani di Hamas, secolaristi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina; ma anche gruppi islamisti: c’è Al-Nusra, Fatah Al Islam e c’è l’Isis: la vista, all’interno del campo, della bandiera nera dello stato islamico non lascia indifferente.
Ma di maggiore impatto sono le armi che tutti gli uomini hanno addosso, così come gli sguardi rivolti a noi: due visitatori sconosciuti, entrati nel loro territorio per cercare di capire.
La visita all’interno del campo tra i problemi delle famiglie
Accompagnati da Raja, un ragazzo libanese che lavora per Terre Des Hommes, la fondazione italiana attiva sul territorio per il supporto alle famiglie, facciamo un veloce tour del campo: “Non porgere la mano agli uomini” è la sua raccomandazione per me. Le famiglie con cui ci fermiamo a chiacchierare sono prevalentemente siriane, sono arrivate qui a più riprese per fuggire dalla guerra facendo così salire il numero degli abitanti del campo. L’aumento della domanda per un posto dove vivere ha fatto gonfiare anche gli affitti degli appartamenti che dai 100 dollari al mese sono arrivati a toccare i 400 dollari.
Una situazione che complica le cose in un luogo già fin troppo intricato. Dopo aver incontrato le famiglie ci dirigiamo nella zona a sud del campo, dove da circa un mese le autorità libanesi stanno erigendo un muro alto circa 4 metri, con torri di osservazioni sul perimetro. Sul piano ufficiale la sua costruzione è il risultato di un accordo fra le varie fazioni armate palestinesi all’interno del campo e le autorità libanesi, con l’obiettivo di impedire che i ricercati, specialmente i jihadisti in fuga, trovino rifugio nel campo.
Ma nonostante l’approvazione del progetto da parte della leadership palestinese, la questione ha scatenato un’accesa protesta da parte degli abitanti di Ein Al Hilweh. Ognuno ha un suo personale punto di vista, ognuno tira fuori una motivazione, ma tutti temono un peggioramento delle già precarie condizioni di vita all’interno del campo.
Sono in molti ad averlo ribattezzato “il muro della vergogna”, un’accezione non casuale: un riferimento a quella barriera di separazione innalzata da Israele in Cisgiordania. Concludiamo il nostro giro incontrando il responsabile della Ngo Naba’a che lavora nel campo. E lui a delineare meglio la situazione: “Il problema più urgente a Ein Al Hilweh è la sicurezza” Il campo è famoso per gli scontri interni fra le varie fazioni, per le persone assassinate, per essere rifugio di trafficanti di armi e di droga, oltre che di estremisti religiosi.
I bambini di Ein Al Hilweh
In questo contesto si muovono anche circa 14mila bambini. Molti di loro conoscono solo la realtà di Ein Al Hilweh, non hanno mai visto cosa c’è al di là del campo, non vanno a scuola e non hanno punti di riferimento.
Prede facili per i radicalismi. I giovanissimi finiscono così nelle grinfie dei terroristi che li addestrano a dovere. Una verità triste e misera. Il responsabile di Naba’a mi guarda negli occhi, e come se volesse riassumere in poche parole tutto ciò che ho visto e provato nel corso della mia visita al campo mi sorride dicendomi: “E’ Ein Al Hilweh”