C'è chi fa selfie davanti al cancello in ferro battuto del campo di Auschwitz su cui compare la frase Arbeit macht frei, 'il lavoro rende liberi', o all'ingresso di altri lager; chi preferisce fare scatti nelle camere a gas o davanti ai forni crematori; chi si mette in posa sul palo delle detenzioni piuttosto che tra baracche, dormitori, celle di detenzione; chi mangia un panino, chiacchiera o ride proprio come si fa andando in gita.

Selfie ad Auschwitz e nei campi di sterminio, il film denuncia

Comitive in visita agli ex campi di sterminio nazisti come fossero a un parco divertimenti, in un centro commerciale o a fare un'escursione.

Si è appena celebrata la Giornata della memoria, ricorrenza internazionale che ogni anno il 27 gennaio commemora le vittime dell'Olocausto, il genocidio scientificamente programmato dalla Germania nazista che causò circa 15 milioni di morti, tra cui sei milioni di ebrei. Il 27 gennaio è il giorno in cui le truppe dell'Armata Rossa liberarono proprio il campo di concentramento di Auschwitz. Contemporaneamente alla ricorrenza, è uscito nelle sale cinematografiche italiane il film documentario Austerlitz, realizzato dal regista ucraino Sergei Loznista e presentato al Festival del cinema di Toronto 2016, che denuncia cosa è diventata la visita ai campi di concentramento e sterminio nazisti. Visitatori come turisti che si comportano con totale mancanza di consapevolezza e rispetto dei luoghi, aggirandosi in un percorso segnato e prestabilito in assenza di criteri di comportamento prima di tutto individuali, quindi di regole sull'abbigliamento da avere o sulla modalità di fare foto o video come accade, ad esempio,nei luoghi di culto.

"E ora inizia la parte più nera del nostro percorso, il campo di sterminio, seguitemi": la voce di una guida turistica irrompe non a caso, nel film documentario Austerlitz di Sergei Loznitsa, il cui titolo è uguale a quello del romanzo di Winfried G. Sebal che racconta il riaffiorare della memoria in un sopravvissuto dell'Olocausto, bambino all'epoca della tragedia.

Il film in bianco e nero si svolge nei campi di concentramento di Dachau e Sachsenhausen, vicini a Monaco di Baviera e Berlino: realizzato con telecamere fisse, si limita a registrare il comportamento della massa in visita. Più di tutto conta fare selfie muniti di 'selfie stick', il bastone; catturare foto di sé e della propria comitiva.

Che il contesto sia quello di una camera a gas di un campo di concentramento, di uno zoo, un parco giochi, un centro comerciale, pare non fare differenza.

Selfie nei Memoriali dell'Olocausto, l'indignazione diventa arte

Il regista ha sentito il bisogno di realizzare un film denuncia dell 'odierna banalità del male, per ricalcare il famoso saggio di Hannah Arendt sul processo al nazista Adolf Eichmann, incarnata da chi si reca in questi luoghi dove sono state sterminate milioni di persone e lo fa senza presenza, empatia coinvolgimento emotivo, al massimo con quell'attenzione discontinua da museo. Memoriali dove non c'è esperienza della memoria ma dell'inconsapevolezza e dove tutto, visitatori, allestimento del luogo, percorso con guide e punti risoro, dissacra ciò che nelle intenzioni vuole celebrare e ricordare.

Rimarrà quale simbolo di questa ultima incarnazione della banalità del male, il selfie che nel 2014 una ragazzina dell'Alabama, Breanna Mitchell, si fece sorridente ad Auschwitz e pubblicò sul suo account Twitter con tanto di emoji divertito scatenando l'indignazione in Rete, persino minacce di morte. Oppure c'è chi come lo scrittore satirico israeliano Shahak Shapira che vive a Berlino sul sito da lui creato 'Yolocaust' ha pubblicato 12 foto facendo la parodia di chi con atteggiamento irrispettoso visita il Memoriale dell'Olocausto a Berlino realizzato nel 2005 a memoria del più grave genocidio del XX secolo, facendosi selfie. Lo scrittore è pronto a levare le foto di chi si dichiara pentito di averle fatte e messe on line.