Ore di sgomento nella città vecchia. La popolazione, che in un primo momento si sperava potesse essere messa in salvo dai corridoi umanitari, si sta trovando tra due fuochi. Da un lato i militanti dell’Isis con le loro misure di morte.

I cecchini sparano a vista a chiunque si muova: donne bambini, anziani. Le mine anti-uomo sono sparpagliate sul territorio e chi chi fugge è costretto a subire i supplizi. Poi vi sono i bombardamenti della coalizione anti-Isis, capeggiata dagli Stati Uniti, con le stragi di innocenti, perché nelle stradine strette non si possono distinguere gli obiettivi militari dalle residenze civili.

Il massacro del 17 marzo

E infatti proprio questo è successo il 17 marzo, quando i bombardamenti aerei hanno ucciso, nel distretto di al-Jadida, più di 200 persone circa, i cui corpi sono stati estratti a pezzi dalle case crollate addosso alla gente. Per parecchi giorni il comando americano aveva taciuto le sue responsabilità, ma molti di quelli che proprio in quel giorno sono riusciti a fuggire, hanno potuto testimoniare sull’accaduto. Senza alcun dubbio hanno parlato di attacchi aerei che hanno fatto crollare gli edifici. Così sabato scorso gli americani hanno riconosciuto di aver colpito in quel giorno pezzi di territorio facendo vittime civili, senza dilungarsi oltre sulle informazioni rilasciate.

Il comando militare iracheno ha invece accusato i jihadisti di aver fatto saltare gli edifici con l’esplosivo per dare la responsabilità alla coalizione.

Ma i conti non tornano

Se da un lato le autorità locali sottolineano che questa situazione non può essere tollerata, dall’altro funzionari del governo americano cercano di far passare un messaggio contraddittorio.

Si afferma che le forze della coalizione stanno cercando di fare il possibile per evitare che la popolazione venga colpita, però, in combattimenti come quello di Mosul, si dice, gli incidenti possono accadere, anche perché rientra nella strategia dell’Isis impedire la fuga dei civili dalla città vecchia. Le voci e le dichiarazioni si rincorrono, dunque, sia sul numero dei morti che sui responsabili, come anche sul numero complessivo delle vittime di Mosul.

Secondo l’Osservatorio iracheno per i diritti umani il conto totale sulla città è di 700mila morti: sono dati che vanno presi con le dovute cautele. Dal 17 febbraio a Mosul ovest secondo l’Onu le vittime sono 307, con 273 feriti. Allo stato attuale sono riusciti a mettersi in fuga 280mila persone, mentre altre 600mila sono ancora rimaste in trappola.

L’unica possibilità è il combattimento di terra

Manca acqua, energia elettrica, cibo, generi di prima necessità. Nel momento in cui una famiglia decidesse di fuggire dovrebbe, oltre che costruirsi un efficace piano di fuga, avere il modo di sedare i bambini, poiché se i loro pianti attirassero l’attenzione dei miliziani dell’Isis sarebbe morte sicura: uccisi sul posto o usati come scudi umani.

La polizia federale irachena negli ultimi giorni dice che le operazioni belliche si sono fermate per pianificare nuove tattiche e altri piani offensivi, ma in un modo o nell’altro si continua a combattere. In un sistema urbano a dedalo, con vicoli stretti e vecchie abitazioni qualsiasi strategia venga utilizzata non può prevedere il raid aereo. L’unica possibile è il combattimento a terra, quello utilizzato, per intenderci, dai gruppi militari kurdi per liberare il nord della Siria dal sedicente Stato islamico.