Continua a far discutere il dramma del Blue Whale, folle gioco online che avrebbe spinto numerosi adolescenti al suicidio, soprattutto in Russia.

Comprendere (per prevenire) il Blue Whale

L’arresto di Philip Budeikin, considerato l’ideatore di questo tragico passatempo, è stato annunciato nei giorni scorsi: in realtà sarebbe avvenuto nel 2016. A rilanciare l’ennesimo pericolo che corre online è stato il recente servizio de Le Iene. “Il programma Mediaset – ha dichiarato Massimo Canu, docente di Psicologia delle Dipendenze all'Università Niccolò Cusano – caratterizzato da ilarità e approfondimento, spesso riesce a mettere in luce le perversioni della nostra società che sfociano nell’abuso verso i più deboli della nostra società: ed è quanto successo anche in occasione del servizio sul Blue Whale Game”.

Eppure, secondo Canu, la cosa più sconcertante non è tanto il fatto che il mondo virtuale, da cui si parte in questo gioco, sconfini così tanto e brutalmente nel mondo reale, “quanto la totale assenza di empatia da parte di chi assiste al dramma.

Le immagini drammatiche, infatti, sono realizzate con diverse inquadrature e prospettive. Ci sono terzi soggetti, dunque, totalmente impietosi per quanto sta per accadere e per ciò che è appena accaduto, come il momento in cui, a seguito del salto nel vuoto degli aspiranti suicidi, viene documentato lo schianto al suolo”. E questa tragedia del suicidio filmato – osserva Canu – succede nel momento in cui sta sbocciando la vita di queste persone: “Tutto ciò sembra essere vissuto con il coinvolgimento che si può provare nel corso di una partita di videogame e, al contempo, quel distacco emotivo che caratterizza il divario tra virtuale e reale; la cosa agghiacciante è che quanto si verifica non sembri essere vissuto come l’epilogo più straziante della vita reale”.

Quali contesti favoriscono il Blue Whale

In quali contesti sociali può trovare terreno fertile un gioco assurdo come Blue Whale? “Se si analizzano le dipendenze patologiche, sia che si tratti di sostanze, legali o illegali, o che siano comportamentali, si osserva una fragilità della struttura interna delle persone dipendenti, che ostacola la possibilità di “autoregolazione” emotiva e cognitiva tra sé e sé, dunque nelle relazioni con l’altro”.

Tutto ciò, analizza Canu, quasi sempre si registra come conseguenza di un rapporto deficitario con la figura materna nello specifico, e con le figure genitoriali in genere.

Proprio questo deficit determina una percezione di “vuoto” e, questa sensazione, inconsciamente, si tenta di colmarla attraverso sostanze da cui dipendere, o attraverso comportamenti ripetitivi che danno seguito alle condotte dipendenti.

Quasi mai si affronta il problema – soprattutto a livello istituzionale – in termini sistemici. Troppo spesso ci si limita a constatare il problema e dare risposte relative al sintomo, dimenticando che una persona o, meglio, la personalità di questa, è una cosa assolutamente complessa che consta di elementi di consapevolezza e inconsci, di razionalità ed emozioni, di parti di sé accettate ed altre negate”. Per questo, secondo Canu, si può affermare che le dipendenze corrispondono ad un tentativo patologico di affrontare il proprio profondo bisogno di dipendenza sana, attraverso una modalità che non sarà mai in grado di rispondere al bisogno profondo, poiché dissociato, salvo alleviare la sofferenza provata inizialmente (che si riacutizzerà successivamente), per il periodo della durata dell’effetto chimico della sostanza o dell’attuazione del comportamento, definendo la condizione di vita.

“Questi processi rendono le dipendenze patologiche assolutamente democratiche: riguardano qualunque ceto socio-culturale ed età anagrafica. Quanto più si osserva una fragilità del sé, tanto più precoce è lo sviluppo di dipendenze patologiche e l’entità con la quale si ricorre a queste, oltre alla durata della condotta”.

Come Blue Whale agisce sul cervello

Su quali meccanismi cerebrali incide un gioco come Blue Whale? “Le dipendenze comportamentali – spiega Canu – agiscono sul cervello in maniera analoga alle droghe. Quando si gioca, fondamentalmente, il cervello rilascia due neurotrasmettitori importanti; la dopamina, che determina la condizione di piacere, e la serotonina, che regola l’umore.

La ricerca di queste percezioni sono il motivo per il quale le persone giocano d’azzardo; anche per tale ragione neurochimica i ragazzi giocano al Blue Whale Game. Ciò che dovrebbe farci riflettere, però, è il motivo per il quale, mentre i primi continuano a giocare, nel tentativo di vincere, per quanto continuino a perdere, i secondi giochino ricercandosi un male crescente. Mentre il giocatore vive intensamente il qui e ora, provando intenso piacere, in attesa che la pallina si fermi sopra uno specifico numero, piuttosto che i dadi continuino a roteare o mentre si abbassa la leva di una slot machine, nella speranza di un premio in denaro (che solo raramente accade), chi gioca al Blue Whale, per riuscire a progredire nel gioco, deve riuscire a superare prove sempre più autolesionistiche, centrate, a partire dal qui e ora, sul proprio dolore”.

Under 11, le vittime principali del Blue Whale

Un fattore fondamentale è l’età delle vittime di questo gioco, in alcuni casi davvero molto giovani: “È molto più facile manipolare dei bambini di età inferiore agli 11 anni perché questi non hanno ancora sviluppato il pensiero astratto, perciò fanno riferimento solamente al pensiero concreto. La preadolescenza e l’adolescenza sono fasi in cui ci si distacca sempre più dai genitori e dalla propria famiglia per investire all’esterno, nel creare una rete di amicizie. È l’attaccamento agli amici che permette di potersi allontanare dalle iniziali figure d’attaccamento affettivo per investire sempre più verso i pari, con i quali crescere, sommando e diversificando le esperienze.

L’appartenenza è un bisogno fondamentale nell’uomo e, nel gioco alla Blue Whale, si sente di appartenere ad un élite ultra selezionata. Solo chi sta particolarmente male può accogliere regole di “gioco” così autolesionistiche, così tanto aggressive, innanzitutto, verso di sé”. Anche in questo “gioco”, secondo Canu, si verifica una forte dissociazione tra il reale e desiderio, tra il bene e il male, tra il bisogno di dipendenza sana e la sublimazione nella dipendenza patologica: il “curatore”, colui che impartisce i livelli di sofferenza al “giocatore”, si sostituisce all’agente di cure (genitori); il desiderio di partecipazione si fonda non sull’arricchimento (denaro, prestigio, potenza), bensì sull’annichilimento (psicologico e fisico); il gioco non si conclude con la perdita del denaro ed il riavvio di un’ulteriore partita, bensì con il paradosso del “riavvio” della propria vita, con il “raggiungimento della libertà” come dice la cinquantesima e ultima regola del gioco, laddove, invece, con un salto nel vuoto, si impone un punto definitivo alla propria vita.

Blue Whale: come difendere i figli

Quali sono, dunque, i principali rimedi o comportamenti per tutelare i propri figli da una moda come questa? “La risposta è molto facile, l’attuazione è molto complessa: osservandoli, ascoltandoli, parlandoci, guardandoli negli occhi. Spesso, i genitori, presi da una vita sempre più difficile, da un punto di vista lavorativo, economico e temporale, delegano le cure per il proprio figlio, più che alla televisione, come accadeva in passato, alle nuove tecnologie, ai social”. Non è un caso che a Latina una potenziale vittima sia stata salvata proprio grazie all’essersi rivolta ai suoi genitori dopo l’invito per partecipare al Blue Whale arrivato in una chat Whatsapp da un numero sconosciuto.

“Gli scambi relazionali – prosegue Canu – sembrano essere sempre più diradati ed impoveriti, a vantaggio di amicizie virtuali. La gratificazione del “dopo” sembra essere sempre più soppiantata, a vantaggio della gratificazione nel “qui e ora”, come i tipi di gioco più fruiti. Ciò che le istituzioni non contemplano, però, nel momento in cui attribuiscono ai genitori la sola responsabilità delle cure verso i loro figli, è che anche i genitori sono delle persone; anche se adulte, oltre alle risorse hanno debolezze e fragilità. Per poterci prendere cura della società, più a largo spettro, perché possa essere sempre più relazionale e coesa, quindi tanto dei minori quanto degli adulti, credo non si possa prescindere dalla domanda “chi, come e da quando aiutare le persone a stare bene, a prescindere dalla loro età anagrafica?” Questo approccio credo possa garantire l’evitamento dell’aprioristica condizione vittima/carnefice, quindi l’allontanamento dalla condizione narcisistica della società, per indirizzare le persone, sempre più, verso la scoperta, l’accettazione e la cura di sé, dunque la scoperta e tutela dell’altro. Del sé e dell’altro reale, con i propri e altrui bisogni, punti di forza e fragilità”.