Negli Stati Uniti la campagna elettorale è basata sullo scontro. Per aggiudicarsi i voti degli elettori, i candidati puntano a demolire l'avversario politico. Gli spot elettorali sono proiettati non tanto alla promozione del programma di un candidato, quanto a distruggere il progetto di governo del candidato opposto. L'Italia è destinata a seguire l'esempio statunitense? Sembra proprio che la Magistratura italiana abbia aperto un varco a questa possibilità, con una sentenza di Cassazione emessa pochi giorni fa. La vicenda ha avuto inizio in un piccolo comune in provincia di Messina.

In clima di elezioni elettorali, un candidato sindaco aveva affermato di rinunciare all'indennità di funzione se fosse stato eletto primo cittadino. Dopo avere ottenuto la carica non aveva mantenuto fede alla parola data. Nell'anno 2011 sei consiglieri comunali del partito opposto, in ragione delle mancate promesse elettorali, avevano appeso lungo le strade della città alcuni manifesti che accusavano il sindaco Parisi di non avere mantenuto l'impegno preso. I manifesti contro il primo cittadino contenevano epiteti quali: falso, malvagio e bugiardo, con richiesta che il sindaco liberasse la città dalla sua presenza. Il primo cittadino, indispettito, si era rivolto alla Magistratura denunciando gli autori del manifesto e ottenendo in prima istanza ragione.

Epiteti considerati dalla Cassazione attinenti alle vicende politiche

Il Tribunale, con sentenza, aveva ritenuto che le connotazioni delle ingiurie contenute nei manifesti andassero oltre il diritto di cronaca politica. I sei oppositori a quel punto erano ricorsi in appello. Nel 2016 il verdetto emesso, a differenza di quello emanato in primo grado, aveva dato ragione ai sei consiglieri, poiché i termini del manifesto potevano essere ritenuti offensivi ma pertinenti e riconducibili all'interno del dibattito politico.

Parisi, dopo questo ribaltamento della decisione del Tribunale di Messina, aveva presentato ricorso in Corte di Cassazione, chiedendo anche un risarcimento danni. La Suprema Corte di Cassazione ha però cestinato il ricorso dell'ex sindaco, confermando la sentenza varata dai giudici in appello. Gli epiteti rivolti a Parisi sono stati considerati attinenti alle vicende politiche che si erano verificate tra sindaco e opposizione.

Secondo la Cassazione, i consiglieri sul manifesto non avevano fatto altro che evidenziare il mancato adempimento delle promesse elettorali, con una critica mirata e legittima.

Questa sentenza apre uno spiraglio alla possibilità che i partiti politici possano fare campagna elettorale puntando sugli impegni disattesi dalla controparte e sulla possibilità di insultarsi, senza incorrere in reato, se le promesse elettorali non saranno mantenute.