I dati del Viminale parlano chiaro: la maggior parte delle donne che subiscono violenza preferiscono tacere. Secondo l'Istat, nei due anni tra il 2014 e il 2016 le denunce sono diminuite inizialmente del 6%, e in seguito del 13%. Le vittime, sopratutto donne, preferiscono tacere. Un esempio lo troviamo nella storia di Ylenia Bonavera, una ragazza di 22 anni che è stata bruciata viva dal fidanzato, il quale, poco prima dell'aggressione, era andato a comprare della benzina. Ylenia aveva urlato durante la violenza il nome del suo fidanzato ai vari soccorritori, ma durante l'udienza al Gup ha smentito tutto, dicendo di amarlo ancora.

Questo è soltanto uno dei migliaia di casi di violenza che si susseguono ogni anno, con oltre un milione di donne coinvolte in Italia, c'è però un elemento che accomuna molte di loro oltre alla violenza subita: il silenzio. Sono dirette le parole di Maria Antonietta Troncone, procuratrice di Santa Maria Capua a Vetere: "Donne, denunciate. Solo così le violenze possono venire alla luce"; idea che sarebbe facile e condivisibile in teoria, ma più difficile di quanto si pensi da applicare.

La violenza può passare da azioni di diversa gravità, come le pressioni psicologiche, a percosse fisiche fino anche all'uccisione della vittima. Statisticamente parlando, nella maggioranza delle volte, le violenze vengono attuate da persone che si conoscono: amici, colleghi e familiari, andando a sfatare quel mito secondo cui gli aggressori sono sempre persone sconosciute.

La violenza tra passato e presente

Da un punto di vista storico la violenza, e in particolare quella domestica, non è tipica della nostra era, anzi, era presente anche in passato anche se nascosto da giustificazioni rivolte al "bene per la famiglia" o legittimate da una cultura patriarcale. Basti pensare che l'ex-articolo 587 del codice penale - abrogato solo nel 1981- prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella, o i loro amanti illegittimi, per difendere l'onore suo o della famiglia, legittimando dunque il cosiddetto "delitto d'onore".

Solo nel 1996 il reato di violenza carnale passa da "delitto contro la moralità pubblica" a "delitto contro la persona"

Ancor'oggi, anche se con motivazioni diverse, la violenza non viene denunciata ma viene sommersa in una coltre di silenzio. Questo perché spesso succede che al comportamento di prevaricazione maschile si accompagna quello di accettazione della vittima con magari anche l'aggiunta del senso di colpa, cercando, razionalizzando, una motivazione che possa essere stata la causa del suo comportamento violento.

Questa accettazione passiva di fatto non diminuisce il comportamento aggressivo, ma anzi, vi trova un terreno fertile formando così un' escalation che può portare anche all'uccisione.

Secondo le valutazioni tradizionali la donna viene considerata come un "angelo del focolare" e quindi deve assumersi la responsabilità della stabilità della relazione, e in questo modo la violenza viene giustificata con il senso di colpa della donna verso sue presunte provocazioni al comportamento aggressivo del compagno. Questi sentimenti di colpa e vergogna contribuiscono al silenzio e alla negazione della violenza, anche quando è palesemente visibile. Così il partner ha buon gioco per colpevolizzare la vittima, facendole apparire gravissimo anche un atto innocente o irrilevante - come, per esempio, bruciare il cibo -.

Anche la comunità e il sistema penale contribuiscono al silenzio della vittima.

La società infatti non prova verso la vittima solamente sentimenti positivi, ma anche negativi, principalmente per due ragioni:

  • Per timore nel pensare che ciò che è accaduto alla vittima potrebbe accadere a chiunque. Per questo si cerca un nesso tra il comportamento della vittima e dell'aggressore, arrivando così alla conclusione secondo cui, in qualche modo, lei deve averlo provocato.
  • Secondo l'ipotesi del "mondo giusto" in cui ognuno ha ciò che si merita. Di conseguenza le buone azioni vengono sempre premiate e quelle negative punite, come in quest'ultimo caso nei confronti della vittima.

Oltre alla comunità, il sistema penale può favorire un processo definito di "vittimizzazione secondaria" dove oltre all'impatto traumatico del reato stesso, vi è un impatto secondario legato al sistema penale che può considerare la vittima responsabile del reato, non venendo creduta o considerata.

Questa vittimizzazione può essere diretta, attraverso una mancata sensibilità delle forze dell'ordine, un'inadeguata intervista che può essere intrusiva o un'insufficiente tutela della vittima con una diffusione di informazioni non necessaria; oppure può essere indiretta, dove la vittima si ritrova a non avere un controllo rispetto agli eventi susseguenti l'offesa subita.

In conclusione, possiamo evidenziare quanto siano numerosi i fattori che concorrono ad alimentare il silenzio nella vittima e spesso questi fattori sono esterni alla sua volontà, per questo dovremmo prima di tutto sensibilizzare il circuito penale per far sì che la vittima all'interno del processo si senta come vittima in quanto tale, piuttosto che come complice a causa di domande provenienti delle parti che possono risultare intrusive.

Allo stesso modo, dovremmo sensibilizzare anche la comunità ad adottare un atteggiamento meno giudicante in modo tale che la vittima, non sentendosi biasimata, possa essere sicura di esporsi a livello sociale e quindi di denunciare il suo aggressore.