A più di una settimana dall’attentato di Macerata, sono comparse in alcune parti d'Italia scritte di solidarietà nei confronti di Luca Traini, il ventottenne che ha aperto il fuoco su un gruppo di immigrati di colore, ferendo sei di loro. L’uomo, dopo aver sparato, si è avvolto nel tricolore italiano e ha alzato il braccio nel saluto romano, con la chiara volontà di attribuire al suo atto una matrice xenofoba e di estrema destra. Le ripercussioni di un’espressione di volontà di tale portata non hanno tardato ad arrivare: a Roma, a Ponte Milvio, è stato esposto uno striscione con la scritta “Onore a Luca Traini”.

Amazon fa sapere inoltre che le vendite del “Mein Kampf” sarebbero aumentate esponenzialmente dopo i fatti di Macerata, portando il libro al ventiquattresimo posto nella classifica dei più venduti.

Ma il consenso nei confronti dell’attentatore non si esaurisce qui: lo stesso avvocato di Traini fa sapere di essere fermato di continuo da persone che vogliono comunicare la propria solidarietà all’uomo. Dall’altra parte sono però numerose anche le condanne verso il gesto, a cominciare da quella del presidente della Repubblica Mattarella che afferma che “senza un senso di comunità si arriva alla violenza”.

L'attentato come forma di paura collettiva?

In un’analisi delle motivazioni retrostanti l’attentato emerge dunque la chiara volontà di Traini (e di coloro che lo esaltano come un paladino della giustizia) di sostituirsi allo Stato nel farsi giustizia da sé.

L’obiettivo dell’uomo era infatti quello di colpire tutti gli immigrati che gli si trovassero a tiro per “vendicare” l’uccisione di Pamela Mastropietro, di cui si è ritenuto responsabile un nigeriano.

Ciò che più colpisce della vicenda è come “la paura dell’estraneo” (ritenuto dagli psicologi un comportamento intrinseco alla natura dell’uomo), unendosi a una situazione politica e sociale incerta, possa sfociare in una violenza così esplicita.

La paura verso un panorama politico e sociale in continuo cambiamento sembra portare all’individuazione di un capro espiatorio al quale addossare tutte le colpe, nel convincimento che, così facendo, si arriverà ad un ripristino della sicurezza collettiva.

Ciò potrebbe però dirigerci verso quello che Agamben definisce un “paradigma securitario”: una sorta di “accordo” in base al quale il cittadino rinuncia a parte della sua libertà personale a fronte della garanzia, dello Stato, di essere protetto. Nel considerare i risvolti di questa vicenda dobbiamo quindi chiederci cosa possiamo fare, come comunità e come singoli, per evitare di approdare a derive antiegualitarie.