Il Myanmar è una nazione complicata. O meglio, lo è diventata dal 2016 in avanti. L’anno fatidico ha visto aumentare le pressioni e le persecuzioni contro il popolo dei Rohingya, minoranza etnica di fede islamica. A distanza di due anni, i primi segnali di rivalsa iniziano – lentamente – a farsi sentire.

La condanna

Siamo nel 2017, un momento storico in cui la diaspora dei Rohingya, così distanti da noi, raggiunge il suo apice, sia in fatto di sfollati che per il numero di morti. Tra questi, dieci uomini di fede islamica vengono brutalmente uccisi nel villaggio di InnDin, dall’esercito del Myanmar.

Ad essere finiti successivamente davanti a un tribunale sono stati quattro ufficiali e tre soldati semplici. Ad aprire l’inchiesta sono stati due giornalisti, Wa Lone e Kyaw Soe Oo.

Recentemente è finito il processo a carico dei sette soldati colpevoli di questa serie di omicidi, e la sentenza è giunta: dieci anni di lavori forzati. Simbolicamente, uno per ogni vittima, ciò a testimonianza del valore della vita di un membro appartenente a una minoranza religiosa nel Myanmar.

Si tratta pur sempre di un passo avanti, per quanto misero: è infatti la prima volta, dall’inizio delle persecuzioni, che l’esercito ammette una propria colpa. Ciò che resta da chiarire è però se, oltre alla vita di dieci persone, il Myanmar saprà prima o poi accollarsi la responsabilità della pulizia etnica avvenuta nella regione del Rakhine.

È la stampa, bellezza

Finita la prima battaglia legale a favore dei Rohingya, resta però un altro caso da affrontare: l’incarcerazione, avvenuta il 12 dicembre, dei due giornalisti che hanno svelato il massacro effettuato dall’esercito. Wa Lone e Kyaw Soe Oo sono infatti stati arrestati con l’accusa di aver ottenuto in modo illecito informazioni private dello stato del Myanmar.

Attualmente i due giornalisti aspettano il processo, consumando le giornate in carcere, ciò dopo che una mozione per far cadere i loro capi d’accusa è stata respinta dal tribunale, viste le prove crude e lampanti che hanno fatto sì che i sette soldati venissero arrestati: si tratta di una serie di foto delle dieci vittime, inginocchiate e legate poco prima dell’esecuzione, insieme a una foto del ritrovamento della fossa comune in cui furono successivamente gettate.

Davanti a prove così palesi, lo stato del Myanmar non ha potuto fare altro che attuare la condanna. Resta ancora da considerare se l’incarcerazione dei due coraggiosi giornalisti sia stato un gesto del tutto legale, oppure una semplice ritorsione per aver svelato al mondo le atrocità che avvengono ogni giorno per le loro strade.