Kiko e Tommy sono due scimpanzé che vivono in cattività nello stato di New York. La Nonhuman Rights Project (NhRP) sta portando avanti, da anni, una battaglia legale per liberarli. Lo scopo dell’organizzazione è quello di modificare lo status legale di questi e altri animali, in modo che non siano più considerati cose o oggetti, ma persone.

La questione legata ai due primati va avanti ormai da 5 anni, ed è tornata di grande attualità in questi ultimi giorni, dopo la pubblicazione di un articolo sul "New York Times" del filosofo Jeff Sebo, il quale ha chiesto che ai due animali venga riconosciuto lo status di persone, e i conseguenti diritti.

Ad oggi, infatti, le leggi degli Stati Uniti permettono la distinzione tra due sole entità giuridiche, le persone e le "cose". Da un lato, le persone possiedono dei diritti, come quello dell'habeas corpus che impedisce la detenzione senza una valida motivazione legale, prerogativa non riconosciuta alle cose. In questa seconda categoria rientrano Kiko e Tommy che, di conseguenza, non hanno diritti e vengono ritenuti proprietà di qualcuno.

Perché volere un cambio di status?

Molti animali, ma soprattutto gli scimpanzé, sono incredibilmente simili a noi e si comportano come noi. Questi primati sono in grado di riconoscersi allo specchio, di collaborare con i propri simili per raggiungere uno scopo, di imparare il linguaggio dei segni per comunicare e creare rapporti di amicizia complessi come i nostri.

Sotto tanti punti di vista, quindi, sono come le persone, eppure la maggior parte di noi non li considera tali.

Il problema viene spiegato da Jeff Sebo

Tutto, secondo Jeff Sebo, può essere ricondotto alla nostra terminologia: siamo abituati a scambiare i termini persona ed essere umano come se significassero la stessa cosa e, di conseguenza, non accettiamo l'espressione "persona non umana".

Però - come sottolinea Sebo - persona e umano non sono la stessa cosa: il primo termine si riferisce ad un concetto biologico che sottintende la nostra particolare specie, "homo sapiens", mentre il secondo si riferisce a quell'insieme di caratteristiche morali e cognitive che rendono una persona tale, riconoscendole dei diritti.

Sebbene non esista un umano che non sia anche una persona, Sebo e altri filosofi sostengono che non bisogna per forza essere degli umani per avere le caratteristiche che rendono una persona.

Ci sono due forti motivazioni alla base del rifiuto di considerare persona un non umano: c'è chi sostiene che la stessa umanità sia alla base dello status di persona, ma Sebo replica a questa versione, sostenendo che la specie in sé non racchiude alcun carattere speciale, essendo categorie create da noi umani per motivi pratici. L'altra prospettiva mette gli umani su un piedistallo, poiché sono gli unici a possedere abilità come linguaggio e capacità di ragionamento, ma Sebo chiarisce che anche gli scimpanzé hanno, almeno in parte, queste caratteristiche.

La questione filosofica

Secondo Jeff Sebo, e chi con lui porta avanti questa battaglia, bisogna applicare una visione più aperta dello status di persona: ciò che rende gli umani delle persone non è la base genetica o la specie di appartenenza, ma è la capacità di provare emozioni, empatia, e di comprendere che siamo reciprocamente dipendenti gli uni dagli altri.

Se questa è la premessa per considerare tale una persona, non è complicato estendere questo status anche ad animali come Kiko e Tommy, poiché anche loro provano emozioni, sono intelligenti e sono esseri sociali. Tutto ciò li pone a tutti gli effetti sullo stesso piano degli esseri umani, quindi dovrebbero avere i loro stessi diritti.

Il problema che sorge a questo punto del dibattito, è che se estendiamo questi diritti agli scimpanzé, poi dovremmo fare lo stesso con gli altri primati, poi anche i cani, i gatti, e forse persino le intelligenze artificiali.

Dunque, una volta riconosciuto il diritto alla libertà, perché non estendere i diritti anche a quello di proprietà, espressione e associazione, alla possibilità di partecipare alla vita civile e di essere rappresentati politicamente?

Sorge, quindi, la necessità di porsi un limite, che implica riflessioni e scelte sicuramente non facili, ma questo non dovrebbe sconfortarci, ma piuttosto stimolarci: "Il fatto che una domanda sia inquietante non può giustificare la scelta di evitarla. Non dovremmo ignorare un'ingiustizia perché ci fa paura ciò che significherebbe riconoscerla. Alcuni limiti devono essere rivalutati o eliminati", spiega Sebo.