Il PM di Milano chiude le indagini per gli undici, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria, accusati di aver colpito con percosse un carcerato tunisino di cinquant'anni. L'uomo, detenuto al carcere di San Vittore per tentato omicidio, è stato oggetto di percosse ripetute a "scopo punitivo". Accanto alle percosse anche le minacce e il tentativo di coercizione: gli agenti cercavano infatti di mettere a tacere l'uomo che, già nel 2011, aveva denunciato altri colleghi della polizia penitenziaria nel carcere di Velletri per dei furti in mensa e delle percosse di cui era stato testimone.

Cosa accade nelle carceri: de-umanizzazione e perdita dell'identità

Il concetto di de-umanizzazione fu approfondito eccellentemente da Zimbardo, noto psicologo statunitense che, nel suo più noto esperimento, ricreò una situazione carceraria tale da permettere di evidenziare le condizioni psicologiche e le dinamiche sociali che frequentemente si innescano in un contesto detentivo. Persino lo stesso sperimentatore perse il pieno controllo durante lo svolgimento dell'esperimento e nonostante la propria immensa preparazione venne sopraffatto dalla stessa situazione sociale che intendeva studiare.

L'esperimento si concluse grazie all'intervento di terzi, che riuscirono a chiudere la situazione sperimentale prima del totale declino.

Ciò a cui era interessato Zimbardo è proprio il rapporto che si innesca tra guardie e detenuti nel momento specifico in cui questi non vengono più considerati come degli esseri umani.

É noto infatti che nelle carceri ogni detenuto pare perdere la propria vera identità: egli cessa di essere una persona, un essere umano dotato di valori, idee e identità, per trasformarsi in un numero di matricola e poco più.

Talvolta il disprezzo per i reati commessi accompagna inesorabilmente il processo di perdita di identità, trascinando le condizioni psicologiche del detenuto nel baratro più totale.

Zimbardo aveva intuito bene questo concetto, tanto da simulare la condizione carceraria curando i dettagli più rilevanti: la presenza di divise, il numero di matricola dei detenuti, la possibilità per le guardie di esercitare potere.

Ora, dinnanzi ad una situazione simile, un tale distacco dalla realtà sociale ed una perdita totale della propria identità perdurante negli anni, quanto le carceri possono davvero essere considerate rieducative? Secondo Goffman, l'ingresso in carcere, nonché dunque all'intero di un'istituzione totale, talvolta degenera in atti umilianti per il detenuto che partono dal sequestro degli affetti personali, proseguono con l'annullamento della propria sessualità e terminano, chiaramente, con la totale perdita di contatto con il mondo esterno.

Dall'annullamento alla scelta del suicidio

Da una ricerca più recente (Manconi e Torrente, 2015) emerge infatti che il suicidio nelle carceri deriva proprio da tre condizioni che chiaramente sono l'esatta conseguenza del "percorso" alienante descritto da Goffman.

Si parla quindi di: sensazione di annullamento soprattutto i nei primi giorni di detenzione, che fa riferimento alla sottrazione della propria identità tramite il sequestro di tutti gli oggetti; la notizia dell'abbandono di un coniuge (che si riferisce non solo all'annullamento della sessualità, ma anche alla perdita dell'affetto e dell'intimità romantica); oppure alla notizia dell'annullamento di una misura alternativa al carcere. Le misure alternative, che sono delle pene differenti dalla detenzione (come i servizi socialmente utili, le strutture di riabilitazione o gli arresti domiciliari) alleggeriscono la perdita di contatto col mondo esterno.

Un'interessante ricerca condotta da Seena Fazel (Università di Oxford) ha documentato efficacemente come nelle carceri il tasso di suicidi sia superiore rispetto a quello della popolazione generale, per una frequenza che varia dalle 3 alle 9 volte di più.

La "prisonizzazione" come esatto opposto del processo di reinserimento

La vita in carcere dovrebbe, come già spiegato, essere non soltanto una misura punitiva, ma anche e soprattutto uno mezzo che permetta il reinserimento dell'individuo nella società con tutte quelle risorse e quegli strumenti che gli permettano di non commettere più dei reati.

Per il reinserimento sono chiaramente necessarie condizioni di contatto, di conoscenza della cultura, di vita con e nella società. E' necessario che venga potenziato nel detenuto il suo senso di autoefficacia (cioè la percezione di poter riuscire in uno specifico compito), che si rafforzino autostima ed identità, che si lavori affinché (a prescindere dalla presenza di diagnosi cliniche psichiatriche) il soggetto percepisca la colpa e il rispetto dell'altro.

Di base, queste sono alcune delle condizioni che sarebbero fondamentali affinché il detenuto non commetta più dei reati.

Un lavoro di questo genere è un lavoro sicuramente complesso, (per cui è chiaro che, considerando anche la profonda eterogeneità dell'individualità e della personalità dei rei e dei reati commessi, non sempre si possono avere i risultati attesi) di certo però le nostre carceri non agevolano il processo, anzi. Sembrano impedirlo con un fenomeno totalmente opposto. Questo fenomeno è quello che Clemmer chiamò "Prisonizzazione".

La prisonizzazione è nient'altro che l'assimilazione di valori, modi di vivere, modi di stare in gruppo, usi e costumi di un certo gruppo, una piccola società che è quella del penitenziario e che si trasforma in una vera e propria cultura, distante e distaccata dalla società che esiste al di fuori delle mura circondariali.

Quindi, in effetti le carceri sembrano partire dalla volontà di avvicinare le caratteristiche personologiche del reo alle norme conformi della società e giungono invece a formare una crepa ancor più profonda: ragion per cui, gran parte delle volte un pregiudicato tornato in libertà commetterà altri crimini.