Nessuno, né negli Stati Uniti né altrove, ha mai pensato che, con l'elezione di Donald Trump, la questione razziale in America avrebbe preso una svolta diversa. Lungi da chiunque il voler attribuire o, in qualche modo, collegare gli avvenimenti che seguono al mandato del neo-presidente americano.
Tuttavia, leggendo con attenzione i fatti e soprattutto la recente sentenza emessa dal tribunale della Florida, non si può non pensare immediatamente al clima di tensione che, tanto in campagna elettorale quanto nelle primissime fasi del suo operato come presidente, il neo-eletto Trump ha alimentato nel Paese.
Gli scontri tra polizia e minoranze etniche, soprattutto quella afroamericana, sono ormai all'ordine del giorno in seguito a brutali omicidi perpetrati proprio dagli agenti in divisa, spesso verso innocenti, e dettati da odio razziale.
Quello che tutti ci chiediamo, soprattutto dopo quanto statuito da una giuria in Florida e in seguito alle affermazioni dell'avvocato della vittima è, pertanto: "Quanto conta la vita di un nero?".
Una sentenza umiliante
Prima di soffermarsi sulla decisione della giuria, occorre fare un passo indietro fino al 2014, quando è stato commesso il delitto in questione, e per i familiari della vittima è iniziata una sequela di umiliazioni e false speranze di giustizia.
14 Gennaio 2014, Florida: dalla Frances K.
Sweet Elementary School, sull'altro lato della strada rispetto all'abitazione della famiglia Hill, una madre chiama la polizia, segnalando un un rumore che disturberebbe la quiete pubblica. Il "baccano" proviene proprio da casa Hill, dal cui stereo il rapper canadese Drake canta a tutto volume la sua "All Me". Si tratta, tra le altre cose, di una canzone che la signora della scuola elementare giudica "disturbante" (molti e chiari i riferimenti a parolacce e slang comune, tra cui ovviamente la nota "parola con la N").
Da qui, la decisione di segnalare la molestia con una chiamata direttamente alla polizia.
A questo punto, la questione passa alle autorità, ovvero ai grilletti degli agenti Edward Lopez e (soprattutto) Cristopher Newman. I due agenti, una volta sul posto e identificata la casa segnalata, si precipitano alla porta del garage da cui proviene la musica.
Sentendo battere sul portone, Gregory Hill, il padrone di casa, si appresta a mettere in moto il meccanismo che solleva la pesante porta. A questo punto, le versioni sono decisamente discordanti: Newman afferma che Hill, una volta avvistati i due uomini in divisa, avrebbe iniziato a fare marcia indietro, chiudendo la porta del garage e tenendo in mano una pistola. Questo sarebbe bastato al poliziotto per far fuoco ben quattro volte: una a terra, due all'addome ed una alla testa dell'uomo.
Ma la tragedia è solo all'inizio: non sicuri della morte dell'uomo, i due agenti chiedono il supporto di una squadra Swat che attacca prontamente l'abitazione con del gas lacrimogeno, danneggiando gravemente porte e finestre.
Ciò che le forze dell'ordine scoprono, ispezionando il cadavere di Gregory Hill, è ancora più sconvolgente: l'uomo aveva sì una pistola, ma assolutamente scarica. In più, l'arma si trovava nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, il più lontano possibile dalla mano con cui avrebbe dovuto impugnarla.
Come si suol dire, oltre al danno, la beffa. La famiglia Hill (la vedova e i tre figli) ha chiesto immediatamente giustizia, richiedendo anche un lauto risarcimento. Purtroppo questa rivendicazione si tradurrà in una grande presa in giro: il giudice, infatti, ha attribuito il 99% della colpa (numeri non esagerati) allo stesso Hill, ignorando ogni tentativo di protesta e riducendo la colpevolezza di Newman appena all'1%.
Ma non basta: in virtù della sentenza, la corte ha sì accolto la richiesta di risarcimento, ma imponendo il versamento di appena 4 dollari: uno per la scomparsa della vittima, e altri tre per ogni figlio rimasto orfano. Inoltre, sembra proprio che il poliziotto non dovrà pagare alcuna somma perché, in base ai risultati dell'autopsia, Gregory Hill è risultato positivo all'assunzione di alcolici, non eccessivamente ma quanto basta per impossibilitarne la guida, e abbastanza in Florida per annullare ogni diritto di risarcimento in casi analoghi.
Gettare il sale sulla piaga
È innegabile come la questione razziale sia rimasta una costante nella storia americana, giungendo fino ai giorni nostri. Ancora oggi, ghetti immensi si stagliano tra i grandi spazi nelle città più importanti.
Volendo analizzare scientificamente il problema, quello dei neri appare ormai come uno status sociale ben definito, e praticamente a sé stante rispetto al resto della varietà del tessuto sociale americano. Questa osservazione è il punto nevralgico di una pluralità di problemi.
Uno degli aspetti maggiormente influenzati dalla ghettizzazione di queste minoranze è, se vogliamo, uno dei punti cardine della società statunitense da molti anni a questa parte: il concetto di mobilità sociale. Questo valore, particolarmente radicato nella società occidentale, altri non è che la possibilità di un individuo (o di una collettività) di acquisire un nuovo status sociale, sia esso migliore o addirittura inferiore rispetto a quello precedente.
I casi sono innumerevoli: la tanto decantata "terra delle opportunità" ha da sempre promesso l'attuazione di questo concetto, alimentando la dolce possibilità che anche chi proviene da una famiglia di umili origini potesse ambire ad un posto ai vertici della società, essere un medico, un manager o quant'altro.
Oltretutto, la storia insegna che non è impossibile un vero e proprio passaggio di status da un gruppo sociale ad un altro (si pensi, ad esempio, ai diritti ottenuti in epoca recente dalle donne, affermatesi come gruppo alla pari degli uomini).
Eppure, in America, si è notato come per un certo sottogruppo, quello afroamericano, ciò non sia possibile. Nonostante vengano continuamente attuate operazioni volte a sopperire - spesso soltanto figurativamente - queste differenze (le cosiddette "affirmative action", come riservare un determinato numero di posizioni pubbliche a soli impiegati di colore, ad esempio) la situazione negli Stati Uniti è più caotica che mai.
Ma cosa c'entra con queste precisazioni il caso di cui abbiamo parlato poco sopra? C'entra eccome.
La cosiddetta "beffa" imposta dalla giuria, non colpisce solo la famiglia Hill, ma tutta la comunità nera. Come? Nel modo meno convenzionale possibile. Com'è già accaduto in passato, l'accanimento della polizia sulle persone di colore ha provocato violente proteste da parte delle minoranze, che spesso sono finite in risse e arresti di massa. Risultato, come prevedibile, la prosecuzione del pregiudizio che vede gli afroamericani come violenti e rabbiosi, e la necessità sempre più opprimente di fermarli.
Come è emerso dagli studi sul dilemma americano da parte dell'economista Myrdal, così facendo si crea inevitabilmente un circolo vizioso che agisce in due modi: in primo luogo, la rabbia scaturita nella maggior parte del popolo verrà tramandata e incastonata nell'educazione delle nuove generazioni che rischiano così di crescere in situazioni violente che le costringeranno in un futuro alla violenza, ed in secondo luogo la delusione che in un modo o nell'altro s'insinua nell'individuo che, sentendosi affibbiato una certa etichetta, è molto probabile che inconsciamente se la porterà dietro per tutta la vita.
Ecco i lati negativi del processo Newman, gli stessi che colpiscono la comunità nera in America fin dalla sua fondazione. Una situazione di continuo ricambio, in cui il controllo sociale ed il movente alla violenza, e insieme alla repressione, vengono costantemente alimentati. La prova? La recente proposta di legge del presidente Donald Trump circa la pena di morte contro l'aggressione ai danni della polizia, oltre che l'eccessivo numero di "police killing" (uccisioni della polizia, ndr) con dinamiche molto, troppo simili a quelle verificatesi in Florida.
C'è da sperare, dunque, in un cambio di rotta prima o poi, anche se le tecniche di controllo fattesi ogni giorno più subdole e potenti suggeriscono un futuro opprimente e frustrante, soprattutto per le minoranze etniche.