Sono ancora 28 gli stati americani che, per reati di competenza statale, applicano la pena capitale (con una menzione speciale per il Texas), contro 22 in cui essa, considerata una punizione crudele ed estrema, è abolita o perlomeno rigettata, seppur non espressamente proibita. Ed è su questa linea di pensiero che si pongono le ultime dichiarazioni del Presidente americano Donald Trump, che alla 37esima Cerimonia di Commemorazione annuale degli ufficiali caduti in servizio, tenutasi a Capitol Hill, ha invocato l'istituzione della pena di morte obbligatoria per i criminali ritenuti rei di aver ucciso agenti di polizia in servizio, in riferimento ai recenti avvenimenti di cui gli States sono stati vittima.

Terroristi, contrabbandieri e assassini

"Portiamo avanti questa battaglia" ha asserito l'ex imprenditore statunitense, puntualizzando che "dobbiamo porre fine agli attacchi contro la nostra polizia e dobbiamo farlo ora. Crediamo che i criminali che uccidono i nostri poliziotti debbano ricevere la pena di morte". D'altronde, stando alla pagina ufficiale del Memorial Down, addirittura 53 agenti di polizia statunitensi sono stati vittime di aggressioni letali durante il loro servizio solo nei primi mesi del 2018, e ben 135 sono stati assassinati nel 2017. È a causa di questa realtà squisitamente americana che nel 1962 fu istituito il Memorial Day degli ufficiali di pace, un'osservanza nata per rendere omaggio agli ufficiali di polizia uccisi o invalidati da civili violenti.

Non è però la prima volta che Trump si concede a sentenze così impopolari: non molto tempo fa, infatti, il Presidente americano è salito agli onori della cronaca per aver sollecitato gli organi governativi ad attuare l'esecuzione della pena capitale anche nei confronti dei narcotrafficanti, almeno nei casi più gravi. È infatti nota la tolleranza zero di Trump verso i trafficanti di droga, tant'è che la proposta è stata annunciata ufficialmente nell'ambito del suo piano di lotta al traffico di stupefacenti, durante un comizio a Manchester, nel New Hampshire, effettivamente uno degli stati americani maggiormente protagonista di tale fenomeno, "che miete oltre 50mila vittime ogni anno in tutto il Paese".

A quanto pare, Trump intende finanziare tale iniziativa con 6 miliardi di nuovi fondi per il 2018-2019 tramite il Congresso degli Stati Uniti.

Ma andando ancora indietro nel tempo, risale già a novembre 2017 il controverso tweet trumpiano che si scaglia contro il caso Saipov e l'attentato di cui fu autore e per cui fu accusato proprio in quei giorni.

Il cinguettio, il cui climax è scritto volutamente in caratteri maiuscoli e con un tono esclamativo ad indicare l'indignazione e la rabbia del Presidente, recitava letteralmente: "Il terrorista di New York era felice quando ha chiesto di appendere la bandiera dell'Isis nella sua stanza di ospedale. Ha ucciso 8 persone e ne ha ferite gravemente 12. DOVREBBE ESSERE CONDANNATO A MORTE!".

Delitti e pene secondo i filosofi

Trascendendo gli esiti sensazionalistici di tali affermazioni, che si accodano alla spettacolarizzazione delle promesse elettorali drastiche del Presidente americano, come il muro al confine con il Messico, ci troviamo senza dubbio di fronte a delle reazioni inopportune per il capo di Stato, di governo e militare della maggiore superpotenza mondiale, gli USA.

Parole e toni che di sicuro lascerebbero contrariati pensatori che nel corso dei secoli, in un modo o nell'altro, hanno rigettato la pratica della condanna a morte, intellettuali e dotti come Agostino d'Ippona, Tommaso d'Aquino, Lev Tolstoj e Friedrich Nietzsche.

Ma l'Illuminista italiano che per antonomasia si occupò più deditamente della questione, solleticando varie eventualità in merito alla pena capitale, fu senza dubbio il celeberrimo Cesare Beccaria, padre di quella Giulia che avrebbe poi dato alla luce Alessandro Manzoni. Giurista, economista e letterato milanese, è ritenuto uno dei padri della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale, e il suo pamphlet del 1764 "Dei delitti e delle pene" fu addirittura fonte d'ispirazione, per tornare in topic, per la costituzione statunitense stesa dai Padri fondatori.

Come mai? Beh, quando nella tua opera magna svisceri il tema della pena di morte, conducendo un'approfondita analisi politico-giuridica contro la tortura e le punizioni mortali, con pesanti contaminazioni razionaliste, pragmatiste e utilitariste, di certo ti spetta un posto di rilievo persino nella storia americana.

"Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio". La pena di morte è un'iniziativa brutale e selvaggia, non giustificata da nessuna ragione teorica o pratica: è questa l'accusa che il filosofo rivolge direttamente al governo della sua epoca, il Settecento, sottolineando la necessità di una radicale riforma della cultura civile e Politica.

Beccaria sostiene infatti che le ragioni del governo, gli interessi della comunità e la tutela dei diritti individuali possono trovare una serena composizione in un nuovo patto sociale che escluda dal proprio spazio giuridico sia la tortura che la pena di morte: trattasi invero di due misure indegne e inefficaci, che accrescono ulteriormente nella cittadinanza il gusto per i sentimenti morbosi.

Soprattutto l'esecuzione pubblica del boia, lungi sicuramente dal prevenire i reati gravi (anzi), si macchia di promuovere una velenosa passione per la violenza libera e gratuita, alla quale il popolo si presta ben volentieri per risolvere le conflittualità intra-sociali. Come scrive Beccaria, infatti, "La pena di morte, rendendo meno sacro e intoccabile il valore della vita, incoraggerebbe, più che inibire, gli istinti omicidi".

Per Beccaria, oltre a essere proporzionata al "danno fatto alla nazione", la pena deve assolvere una funzione dissuasiva, nell'intento di prevenire i delitti, anziché infliggere inutili tormenti o pretendere di riparare un reato già commesso. Ne derivano la condanna della tortura, giudicata peraltro inattendibile come strumento investigativo, e l'affermazione dell'illegittimità e dell'inutilità della pena capitale, la quale non distoglie dal compiere i crimini più gravi, contribuendo anzi all'imbarbarimento delle coscienze. Nulla giustifica la pena di morte sul piano del diritto naturale o in base al contratto tra i cittadini che è a fondamento dello Stato. Molto meglio la condanna ai lavori forzati o la detenzione a vita, precisa il giurista, che suscita un'impressione assai più duratura, una sofferenza a lungo termine, rispetto al violento, ma passeggero, "spettacolo della morte".

Sollecitando la riflessione sul sistema penale vigente, Beccaria si interroga dunque sull'effettiva validità di tale metodo estremo e disumano, un illogico contrappasso in cui lo Stato, punendo un delitto, ne commetterebbe uno a sua volta. Eppure, sembrerà strano, ma l'innovativa critica alla pena di morte non è assolutamente definitiva nella formulazione dello studioso: essa, infatti, è necessaria, ma non giusta, in quanto "infrazione della legge morale per la quale l'uomo, anche nei confronti dello stato, è sempre non mezzo, ma fine", come scriveva Piero Calamandrei.

E forse anche nella mente di Beccaria s'intravedeva una possibilità limite per tale aberrante sanzione: "La morte di un cittadino non può credersi necessaria, ché per due motivi.

Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; il secondo, quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di un cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi."

All'interno del vincolo giuridico della società, anche colui che ha compiuto un delitto non può essere sanzionato se non per quella porzione di libertà personale a cui si rinuncia ineluttabilmente con l'ingresso in società. Ma sicuramente nessuno ambisce a privarsi del bene più prezioso, la propria stessa vita, ed è in quest'ottica che la pena di morte pare inconcepibile.

Fortunatamente oggi nel mondo numerosi movimenti si battono per l'abolizione della condanna a morte, ancora presente, ad esempio, nel west americano e in Medio Oriente, lottando in nome dei diritti dell'uomo: il 18 dicembre 2007, finalmente, l'ONU, con 104 voti favorevoli, 54 contrari e 29 astenuti, ha approvato la tanto agognata Moratoria universale della pena di morte, promossa dall'Italia a partire dal 1994.

Insomma, parafrasando le stesse parole del grande Beccaria, "Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità." E almeno i posteri, che hanno raccolto la sua eredità, hanno potuto ritirare il "premio" in suo nome, per il bene dell'intera civiltà.

Almeno finché il prossimo presidente, sovrano, reggente o governante, com'è oggi Trump, non metta nuovamente in crisi questo valore faticosamente somatizzato dalla società di oggi, ma ancora incerto nelle comunità più estremiste del mondo.